Al teatro Belli è in scena Birth
of a nation, primo tassello (insieme a Odissey)
del dittico Addio alle armi,
due spettacoli su testi di Mark Ravenhill per la regia
di Fabrizio Arcuri.
Birth of a nation ha
inaugurato l’ottava edizione della rassegna
TREND nuove frontiere della scena britannica a cura
di Rodolfo di Giammarco (fino al 9 novembre, programma
completo su http://www.teatrobelli.it).
L’opera si rifà ad uno dei più
importanti film nella storia del cinema americano,
girato nel 1915 da David Wark Griffith.
Ravenhill – sicuramente uno degli autori più
interessanti della vitalissima nuova scena britannica
– lo colloca al presente: dopo un bombardamento
in una città indefinita, quattro artisti giungono
a promuovere la loro arte per salvare la popolazione.
Gli attori entrano in scena con i loro trolley dalla
porta d’ingresso del pubblico, dalla platea
interpellano gli spettatori che diventano abitanti
della città devastata. Rimembrano la guerra
e i bombardamenti, raccontano le loro storie personali
di umiliazioni e privazioni, presentano la loro arte
definendola taumaturgica per contrastare i disastri
lasciati dal conflitto. Interagiscono con il pubblico
in una specie di talk show a tratti grottesco: sono
il pittore, lo scrittore, il danzatore e il performer.
Ravenhill tratteggia questi personaggi in maniera
comica, sarcastica; riflette e ci fa riflettere sul
significato dell’arte e sul suo rapporto con
la vita. Il risultato sarà uno solo, perentorio:
l’arte non salverà il mondo, la guerra
schiaccia tutto e tutti e fa le sue vittime. La ragazza
chiamata sul palco a provare i laboratori artistici
ha la lingua mozzata e l’ultima scena (il sangue
che esce dalla bocca e imbratta il suo vestito bianco)
svela il messaggio dell’autore: la pratica artistica
non cura le ferite e non dona la speranza. Anche se
la danza finale ci lascia un velo di ambiguità.
Una regia giustamente al servizio del testo, un’interpretazione
adatta a tratti coinvolgente.
[simone pacini]