Birth of a Nation
da Shoot/Get Treasure/Repeat
Autore: Mark Ravenhill, traduzione Pieraldo Girotto
Regia: Fabrizio Arcuri
Cura degli ambienti: Diego Labonia
Interpreti: Matteo Angius, Gabriele Benedetti, Fabrizio Croci, Pieraldo Girotto
Produzione: Accademi degli Artefatti

Al teatro Belli è in scena Birth of a nation, primo tassello (insieme a Odissey) del dittico Addio alle armi, due spettacoli su testi di Mark Ravenhill per la regia di Fabrizio Arcuri.
Birth of a nation ha inaugurato l’ottava edizione della rassegna TREND nuove frontiere della scena britannica a cura di Rodolfo di Giammarco (fino al 9 novembre, programma completo su http://www.teatrobelli.it). L’opera si rifà ad uno dei più importanti film nella storia del cinema americano, girato nel 1915 da David Wark Griffith.
Ravenhill – sicuramente uno degli autori più interessanti della vitalissima nuova scena britannica – lo colloca al presente: dopo un bombardamento in una città indefinita, quattro artisti giungono a promuovere la loro arte per salvare la popolazione. Gli attori entrano in scena con i loro trolley dalla porta d’ingresso del pubblico, dalla platea interpellano gli spettatori che diventano abitanti della città devastata. Rimembrano la guerra e i bombardamenti, raccontano le loro storie personali di umiliazioni e privazioni, presentano la loro arte definendola taumaturgica per contrastare i disastri lasciati dal conflitto. Interagiscono con il pubblico in una specie di talk show a tratti grottesco: sono il pittore, lo scrittore, il danzatore e il performer.
Ravenhill tratteggia questi personaggi in maniera comica, sarcastica; riflette e ci fa riflettere sul significato dell’arte e sul suo rapporto con la vita. Il risultato sarà uno solo, perentorio: l’arte non salverà il mondo, la guerra schiaccia tutto e tutti e fa le sue vittime. La ragazza chiamata sul palco a provare i laboratori artistici ha la lingua mozzata e l’ultima scena (il sangue che esce dalla bocca e imbratta il suo vestito bianco) svela il messaggio dell’autore: la pratica artistica non cura le ferite e non dona la speranza. Anche se la danza finale ci lascia un velo di ambiguità. Una regia giustamente al servizio del testo, un’interpretazione adatta a tratti coinvolgente.
[simone pacini]