Monologhi
prolungati, rare interazioni tra le protagoniste,
voci salmodianti e uno spazio scenico imponente ma
nel contempo senza troppi orpelli. Lo spettacolo Autobiografia
della vergogna (Magick) inizia con il sipario-cortina
abbassato e una voce, quella della madre (Lucia Calamaro),
che racconta di sé, si descrive e mette immediatamente
sulla scena la parola protagonista della serata: la
vergogna. “La mia vergogna c’era prima
di me, io ci sono solo caduta dentro”. Sintesi
perfetta della caduta che vivranno anche gli spettatori
nelle trame e flussi di coscienza della Calamaro.
Il sipario si alza e appaiono le tre entità
fisiche che leggono con monotonia le biografie di
Beckett, Dostoevskij e Sant’Agostino. Tre autori
simbolo delle fondamenta del dramma: introspezione,
analisi e descrizione.
Palcoscenico
scarno, libri sparsi per terra, qualche sedia e luci
che definiscono gli spazi. Lucia Calamaro è
la madre, amara e intimidita dallo sguardo altrui.
Interagiscono con l’autrice regista Benedetta
Cesqui (la figlia) e Monika Margotti (il padre). Le
luci creano, definiscono gli spazi: le stanze familiari.
Il
frenetico cambio di scena si concretizza con lo il
caotico spostamento dei volumi che finiscono attaccati
alle pareti: l’orizzonte si organizza in biblioteca
(e precisamente, nella biblioteca Richelieu di Parigi).
“Il
sottotesto centrale di Magick - come spiega Lucia
Calamaro - è la vergogna. Emozione complessa,
transgenerazionale, sociale, epidemica e virale, penosa,
distruttrice, isolante, non verbalizzata, gemella
del segreto, devastante. La vergogna non è
senso di colpa, ci si vergogna di essere, non di fare,
è un disaccordo metafisico con se stessi. Chi
parla della vergogna, la conosce. Eccome. Anche chi
viene a vederla. Forse. Altrimenti, per definizione,
vive nascosta e non se ne parla".
Spettacolo
interessante, le cui redini sono tenute dalle tre
interpreti. Spicca l’inquietante voce della
regista Calamaro e la maestria corporea di Monika
Margotti.
[valentina venturi]