Lo
spettatore è ancora in grado di indignarsi
di fronte a qualcosa di orrendo? Qual è il
confine tra la finzione e la realtà? In che
modo il pubblico partecipa ad uno spettacolo teatrale?
“L'attuatore”
è uno spettacolo che sperimenta delle risposte,
in cui l’effetto casuale si confonde con l’effetto
voluto. Il pubblico è chiamato ad intervenire,
Aristotele è stato il primo a dirlo, parlando
della catarsi dello spettatore. Qui il coinvolgimento
è diretto, sul palco, insieme agli attori.
Forse si tratta di una provocazione, o magari dell'ennesimo
effetto speciale proposto dall’autore teatrale.
Il dubbio è lecito, ma alla fine non è
poi così importante.
Quattro
attori recitano dei monologhi. Rosa Sarti è
Caterina, una donna violentata dal padre (toccante
quando racconta a monosillabi la violenza subita,
nonostante una fisicità quasi angelica la ostacoli
a rendere il ruolo di una ragazza di borgata); Giuseppe
Amato interpreta il fruitore entusiasta del teatro,
che vede il bene ovunque (quando si lascia andare
il personaggio acquista forza); Fabrizio Martorelli
è il regista che con distacco intellettuale
e cinismo racconta il suo rapporto con l’opera
creata e con la vita (strana somiglianza con l’artista
De Dominicis e l’ambiente della Galleria l’Attico
di Roma degli anni ‘70: tra l'hippy e il morettiano.
Il più convincente di tutti); Alessandro Rugnone,
infine, è l’attore che racconta le gioie
e le difficoltà del suo essere attore (sopra
le righe, convince più con lo sguardo che con
le parole).
Sembra
tutto casuale, ma a teatro nulla lo è. E infatti
lo spettatore, senza accorgersene, dà conto
della sua presenza, diventa responsabile di ciò
che accade sul palcoscenico. Non importa che gli attori
all’inizio siano freddi, o a volte poco credibili.
Tessono la loro tela di ragno, fino a quando il pubblico
non cade nella rete. Come l'assuefazione alla violenza:
Alessandro Rugnone è aggressivo, non si controlla,
dopo aver percosso l’attrice potrebbe far male
a qualcuno del pubblico. Il silenzio è l'eloquente
reazione del pubblico. Il racconto del regista, secco
e cinico sul tabù collettivo della violenza
sui bambini, è un pugno nello stomaco. Lo spettatore
è indignato, la compagnia può essere
soddisfatta, l’indifferenza è rimasta
fuori.
Vale
per lo spettacolo quello che Alessandro Rugnone dice
dell’attore: è riuscito quando il testo
è scritto bene. E il testo del “L’attuatore”
è scritto e diretto bene. Un esperimento teatrale
a volte discutibile, che manipola ma induce alla riflessione
sulla violenza, sul confine tra finzione e realtà,
sul cinismo di una parte della cultura. Come ha dichiarato
Fabrizio Gifuni in una recente intervista: «Il
pubblico è parte del processo creativo, a patto
che sulla scena accada veramente qualcosa».
Qui accade. Per un pubblico che voglia mettersi in
gioco e a servizio dell’arte, fino in fondo.
[deborah ferrucci]