Gogo
e Didi aspettano Godot. Sono clochard, amici vagabondi,
padre e figlio, coniugi innamorati. Aspettano Godot,
ma non l’hanno mai visto Godot. Non saprebbero
neppure riconoscerlo. Ma lo aspettano. Aspettano un
pasto caldo e un posto per passare la notte. Aspettando,
vivono. Ridono, si interrogano sulla vita, scherzano,
giocano, fantasticano su ciò che accadrà.
E così il tempo trascorre, tra momenti di disperazione
in cui pensano di impiccarsi, a momenti di gioiosa
ilarità. Eros Pagni e Ugo Pagliai sono una
coppia comica inaspettata: si completano, si spalleggiano,
intimamente in simbiosi.
Lo
scheletro di un albero (forse un salice senza foglie)
è al centro del palco, occupando la scena lugubre
della desolata campagna nella quale i due si trovano
ad aspettare. Nell’attesa sembra non accadere
nulla: è l’attesa l’accadimento
stesso. Aspettando Godot, avviene il passaggio surreale
di un crudele padrone e del suo servo: Pozzo e Lucky.
Pozzo è Gianluca Gobbi (bravo nella sua misurata
follia e insensata pietà): tiene al guinzaglio
il servo, lo muove con un “ToiToiToi”
irriverente e divertente ed è assurdo tanto
nelle movenze quanto nelle conversazioni che intrattiene
con i due “in attesa”. Ma Godot non arriverà.
Almeno per oggi. Verrà di sicuro domani, come
avverte un ragazzo inviato per informare i due che
lo aspettano. Un paio di scarpe strette, discorsi
stralunati, un paltò che copre l’amico
che dorme, il freddo della notte che scende: trascorre
nell’attesa anche il giorno successivo. Fino
all’arrivo del ragazzo (sarà lo stesso
o un altro?) che insinua il dubbio che sia tutto un
sogno. O forse frutto della pazzia.
I
due atti sono racchiusi in una sorta di palla di vetro,
di quelle che a girarle viene giù la neve,
illuminata al suo interno da perfetti giochi di luce.
“Aspettando Godot” è il non-senso
all’ennesima potenza, che il regista Marco Sciaccaluga
dirige senza esitazioni, allestendo una vera e propria
poesia sul tempo.
[patrizia vitrugno]