“L’arma”
di Duccio Camerini è il testo finalista al 50° premio
Riccione: è la storia di un uomo incapace di sopravvivere
alle regole sociali, che decide di ritirarsi come un eremita
su una montagna. Durante la fuga, s’imbatte in una sconosciuta
che gli affida la sua creatura appena nata. Salito sulla montagna,
alleva la bambina come fosse sua figlia in un ambiente selvaggio
e poco adatto ad una neonata. Il tempo scorre e mentre la ragazza
cresce come fosse un animaletto ben temprato alle difficoltà
della vita, il figlio vero lo cerca per parlargli. Le tre figure
si incontrano e scontrano sulla scena, gettandosi addosso le
proprie contraddizioni, paure e recriminazioni e lasciando al
pubblico un finale aperto.
Un testo criptico ed elaborato,
adatto ad una messa in scena in forma di oratorio. I tre personaggi,
pur contemporaneamente in scena, sembrano non dialogare mai
direttamente tra loro, evitando di creare una vera e propria
azione e sciogliendo i possibili conflitti del plot, tanto
da lasciar pensare ad una ben precisa scelta drammaturgica.
I tre si alternano in discorsi che trattano delle aspettative
e delle delusioni alle quali è soggetta l'esistenza
umana.
La regia dà dinamicità
al tutto, anche grazie all'originale scenografia, una sorta
di zattera mobile che delimita, attraverso il movimento sulla
scena, i differenti salti temporali e gli interventi dei protagonisti.
Si apprezza più
degli altri il contributo di Giorgio Colangeli, che interpreta
la parte dell’uomo pieno di rabbia, intenso e disperato;
molto acerba, seppur con una grande energia da mettere in
campo Mariachiara Di Mitri; dignitoso Andrea Bosca. Applausi
calorosi al finale.
[annalisa picconi]