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Anno
1947
Genere
commedia
In
scena
turnè
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Autore |
Carlo
Goldoni |
Adattamento/Traduzione |
Giorgio
Strehler |
Regia |
Giorgio
Strehler messa in scena da Ferruccio Soleri |
Scene |
Ezio
Frigerio |
Costumi |
Franca
Squarciapino |
Luci |
Gerardo
Modica |
Musica |
Fiorenzo Carpi |
Interpreti |
Ferruccio
Soleri, Enrico Bonavera, Giorgio Bongiovanni, Francesco
Cordella, Leonardo De Colle, Alessandra Gigli, Stefano
Guizzi, Pia Lanciotti, Fabrizio Martorelli, Tommaso
Minniti, Katia Mirabella, Stefano Onofri, Annamaria
Rossano e i suonatori Gianni Bobbio, Leonardo Cipriani,
Francesco Mazzoleni, Celio Regoli, Francesco Piccinini |
Produzione |
Piccolo
Teatro di Milano |
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Se
“Il servitore di due padroni” rappresenta l’opera
attraverso la quale Carlo Goldoni nel 1745, avviò la
riforma del teatro italiano, disancorandolo dagli stereotipi
della commedia dell’arte, la rilettura creativa che, due
secoli dopo, ne fece Giorgio Strehler si presenta ancora oggi,
come in una storia del teatro in miniatura, la sintesi perfetta
di tradizione e modernità. Messo in scena per la prima
volta nel 1947 al Piccolo di Milano con l’aggiunta del
nome del protagonista nel titolo, lo spettacolo conobbe un insperato
successo internazionale anche grazie alle interpretazioni di
Marcello Moretti e, alla morte di quest’ultimo nel 1959,
di Ferruccio Soleri. Sopravvissuto al regista, scomparso nel
1997, “Arlecchino servitore
di due padroni” ha superato da qualche
settimana la replica numero 2.800.
In una Venezia ancora
benestante, ma che già reca inequivocabili segni di
decadenza, si snoda un’irresistibile commedia degli
equivoci che prende le mosse dalla promessa di matrimonio
tra Clarice, figlia del mercante Pantalone, e Silvio, figlio
del Dottore Lombardi. I due possono convolare a nozze in seguito
alla morte di Federigo Rasponi, promesso sposo della ragazza,
avvenuta in circostanze violente. L’irruzione in scena
di Arlecchino, che si presenta come servitore del redivivo
Rasponi, giunto a Venezia per chiedere la mano di Clarice,
getterà un’ombra comicamente sinistra sulla vicenda.
In realtà il suo padrone altri non è che Beatrice,
sorella di Federigo, arrivata in città sotto spoglie
maschili per riscuotere i soldi della dote e ritrovare l’amante
Florindo Aretusi. Poco felice del trattamento riservatogli
dalla donna, per nulla interessata ai piaceri della tavola,
e allettato dalla prospettiva di ricevere una doppia razione
di cibo, Arlecchino finisce per prestare i suoi servigi anche
ad uno straniero che si rivela essere proprio Florindo Aretusi.
Da maggiore interprete
contemporaneo della maschera più famosa del mondo,
Soleri esorcizza il peso dell’età con una vitalità
ancora invidiabile: un atleta di 83 anni che salta, balla
e corre da un punto all’altro della scena, in sintonia
con quel ritmo incalzante che rappresenta uno dei requisiti
fondamentali del teatro di Strehler. L’Arlecchino di
cui veste i panni è un imprevedibile, affamato mentitore,
immerso fino al collo nella lotta per la sopravvivenza cui
sono avvezzi gli ultimi del mondo. La scena in cui, richiamando
la partecipazione attiva del pubblico, mangia una mosca viva
è una delle pagine più belle del teatro contemporaneo.
Alla mancanza della mimica facciale, impedita dalla grossa
maschera scura calata sul volto, Soleri supplisce con la vocalità
e con movimenti del corpo così sorprendenti da rendere
meno ostico perfino il dialetto bergamasco nel quale si esprime.
Ed è l’esasperazione del dato fisico che conferisce
forza a figure come quella di Pantalone, interpretato da Giorgio
Bongiovanni, o del Dottore Lombardi, di cui Tommaso Minniti
veste i panni. Pregevole la prova di Pia Lanciotti nel ruolo
di Beatrice.
La centralità dello
spazio scenico e il rilievo conferito all’illuminazione
rimandano alla lezione di Strehler. Gli attori si muovono
su una pedana di legno sormontata da una scenografia che richiama
le architetture del tardo barocco; si inseguono con movenze
da burattini cinti di abiti eleganti, talvolta cantano accompagnati
da una piccola orchestra di chitarre e fiati simile a quelle
dell’opera buffa settecentesca. Dal quale sembra mutuata
anche la frase di Clarice che chiude il primo atto: “Purtroppo
egli è vero: in questa vita per lo più o si
pena, o si spera, e poche volte si gode”.
[valerio
refat]
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