C.C.
"Bud" Buxter (Massimo Dapporto), impiegato
ambizioso di una grande società di assicurazioni,
sa mettersi in luce con i superiori prestando ai più
libertini. Il suo appartamento. Spera così
in una fulminante carriera. Paga il prezzo di piccoli
disagi che scaturiscono in gag esilaranti con vicini
e colleghi. La voce si sparge fino ai piani alti dell'azienda
e finalmente può lasciare a J. D. Sheldrake,
il grande direttore, campo libero nel suo appartamento.
Ma, sorpresa delle sorprese, apprende a malincuore
che la gentile accompagnatrice del capo è la
donna dei suoi sogni: Fran Kubelik (Benedicta Boccoli)
gentile, discreta, ricercatissima, inarrivabile "ragazza
dell'ascensore". A questo punto Bud dovrà
prendere la decisione della vita: perdere l'amore
o il lavoro?
Questo il plot de "L'appartamento",
commedia scritta da Billy Wilder e I. A. L. Diamond
trasposta sullo schermo nel 1960 dallo stesso Wilder
con Jack Lemmon e Shirley MacLaine e vincitrice di
5 premi Oscar (regista, sceneggiatura originale, montaggio
e scenografia).
Il
regista così spiega la commedia: "Può
l'amore vincere sulla carriera? Si, questa commedia,
lucida, cinica, amara e divertente del grande Billy
Wilder dà una risposta affermativa pur mettendo
a nudo una società e un mondo del lavoro basati
sull'ambizione, il denaro e la costante ricerca di
un miglioramento sociale. I "piccoli disagi"
diventano però "grandi rinunce",
quando si parla d'Amore e allora libero spazio al
lieto fine in barba ai soldi, alla carriera e al successo.
In senso metaforico "l'appartamento" potrebbe
essere sottotitolato "come riconquistare l'innocenza
perduta".
Il
risultato è però discontinuo e non del
tutto convincente. Il primo atto splende per brillantezza
interpretativa e ritmo narrativo, con cambi di scena
funzionali affidati ad una macchina scenica circolare
con piattaforma rotatoria. I problemi sorgono dopo
l'intervallo, dove la leggerezza del testo è
appesantita da una certa dose di stanchezza e ripetitività
dei meccanismi scenici e "ritornelli" recitativi
che invece di chiamare la risata, appesantiscono le
palpebre degli astanti. Messa in scena chiaroscurale,
con la luce che si accende solo ad intermittenza.
[fabio melandri]