Era
il 442 a.C. quando “Antigone”
venne rappresentata per la prima volta ad Atene: Sofocle, durante
i Giochi Dionisiaci di quell’anno, dava alla luce una
tra le eroine tragiche che più di altre avrebbe saputo
travalicare epoche e affascinare autori dopo di lui. Alfieri,
Cocteau, Anouilh: tanti hanno riscritto la tragedia sofoclea
riadattandola ai propri tempi e alla propria estetica. Serviva,
dunque, un’altra rilettura? La risposta non può
che essere affermativa, visti i risultati ottenuti da Valeria
Parrella.
Se in Sofocle, nella società
ateniese del V secolo avanti Cristo, Antigone si ribella alla
volontà di Creonte, il nuovo re di Tebe, che si oppone
alla sepoltura di Polinice, nella Parrella, ai giorni nostri,
il diritto a una giusta sepoltura si traduce nel diritto all’eutanasia.
L’eterno dramma dell’Uomo, diviso tra diritto
e morale, giustizia e verità, legge e libertà,
si veste di nuovi abiti ma rimane irrisolto e cocente, a scuotere
le anime. E’ raro, negli ultimi tempi, assistere a uno
spettacolo teatrale in cui ogni parte collabori così
bene alla riuscita della pièce: in questa “Antigone”,
Luca De Fusco mette la sua regia, con le scene di Maurizio
Balò, i costumi di Zaia de Vicentiis, le luci di Gigi
Saccomandi e le musiche di Ran Bagno, al servizio di un testo
denso e sofferente. Aiutato dall’uso di immagini proiettate
su un telo che divide la platea dallo spazio di azione, il
regista si serve della scenografia come di una bilancia, capace
di visualizzare quanto e chi si avvicina al Legislatore, quel
Guardiano di Tebe che in alto, mentre continua a legiferare,
controlla che nessuno attenti di nuovo alle porte con cui
protegge la città.
Gli altri personaggi non
possono che stare al di sotto o poco distanti. In questo senso
le luci e le scene si compenetrano, diventando parte integrante
una dell’altra, didascaliche e funzionali allo stesso
tempo. Come didascalici e funzionali sono i visi giganteschi
dei personaggi proiettati di fronte alla platea, a suggerire,
forse, il nuovo modo di un attore di essere e servirsi della
maschera.
Uno spettacolo difficile
ma riuscito, malgrado soffra di una recitazione sproporzionata:
tra la bravura di Gaia Aprea, un’Antigone dignitosa
e commovente, e di Paolo Serra, il Legislatore giusto e inflessibile,
e i giovani Giacinto Palmarini e Dalal Suleiman, i due corifei,
a cui spettava, invece, un ruolo fondamentale.
Apprezzabile l’intuizione
di avvalersi di solo due coreuti, un uomo e una donna, a fronte
dei 15 voluti da Sofocle, a significare, secondo la dichiarazione
della stessa Parrella, la scomparsa della collettività
«isterilita nell’individualismo». Purtroppo
i due giovani attori non sono all’altezza del compito,
facendo scivolare troppo spesso la tensione, incapaci di reggere
l’impostazione surreale ed estraniante ottenuta dall’Aprea
e da Serra (ma anche gli altri tre attori, Anita Bertolucci,
Alfonso Postiglione e Fabrizio Nevola, non sono da meno).
Quasi a dimostrare, loro malgrado, che l’individualismo
del nostro tempo è scevro di qualsivoglia riferimento
eroico: è piuttosto un vuoto esercizio di maniera,
tutto svolto e fatto da un posizionamento nello spazio scenico.
Peccato, perché impedisce al testo della Parrella di
ottenere fino in fondo quella catarsi propria della tragedia.
Rimane l’irrisolto, di un Uomo in costante contrapposizione
tra natura e cultura.
[francesca romana buffetti]