Antigone


Anno
2012

Genere
tragedia

In scena
fino al 21 aprile
Teatro Eliseo | Roma

Autore
Valeria Parrella
Regia
Luca De Fusco
Scene
Maurizio Balò
Costumi
Zaira de Vicentiis
Luci
Gigi Saccomandi
Musica
Ran Bagno
Interpreti
Gaia Aprea, Anita Bartolucci, Fabrizio Nevola, Giacinto Palmarini, Alfonso Postiglione, Nunzia Schiano, Paolo Serra, Dalal Suleiman
Produzione
Teatro Stabile di Napoli / Fondazione Campania dei Festival

 

Era il 442 a.C. quando “Antigone” venne rappresentata per la prima volta ad Atene: Sofocle, durante i Giochi Dionisiaci di quell’anno, dava alla luce una tra le eroine tragiche che più di altre avrebbe saputo travalicare epoche e affascinare autori dopo di lui. Alfieri, Cocteau, Anouilh: tanti hanno riscritto la tragedia sofoclea riadattandola ai propri tempi e alla propria estetica. Serviva, dunque, un’altra rilettura? La risposta non può che essere affermativa, visti i risultati ottenuti da Valeria Parrella.

Se in Sofocle, nella società ateniese del V secolo avanti Cristo, Antigone si ribella alla volontà di Creonte, il nuovo re di Tebe, che si oppone alla sepoltura di Polinice, nella Parrella, ai giorni nostri, il diritto a una giusta sepoltura si traduce nel diritto all’eutanasia. L’eterno dramma dell’Uomo, diviso tra diritto e morale, giustizia e verità, legge e libertà, si veste di nuovi abiti ma rimane irrisolto e cocente, a scuotere le anime. E’ raro, negli ultimi tempi, assistere a uno spettacolo teatrale in cui ogni parte collabori così bene alla riuscita della pièce: in questa “Antigone”, Luca De Fusco mette la sua regia, con le scene di Maurizio Balò, i costumi di Zaia de Vicentiis, le luci di Gigi Saccomandi e le musiche di Ran Bagno, al servizio di un testo denso e sofferente. Aiutato dall’uso di immagini proiettate su un telo che divide la platea dallo spazio di azione, il regista si serve della scenografia come di una bilancia, capace di visualizzare quanto e chi si avvicina al Legislatore, quel Guardiano di Tebe che in alto, mentre continua a legiferare, controlla che nessuno attenti di nuovo alle porte con cui protegge la città.

Gli altri personaggi non possono che stare al di sotto o poco distanti. In questo senso le luci e le scene si compenetrano, diventando parte integrante una dell’altra, didascaliche e funzionali allo stesso tempo. Come didascalici e funzionali sono i visi giganteschi dei personaggi proiettati di fronte alla platea, a suggerire, forse, il nuovo modo di un attore di essere e servirsi della maschera.

Uno spettacolo difficile ma riuscito, malgrado soffra di una recitazione sproporzionata: tra la bravura di Gaia Aprea, un’Antigone dignitosa e commovente, e di Paolo Serra, il Legislatore giusto e inflessibile, e i giovani Giacinto Palmarini e Dalal Suleiman, i due corifei, a cui spettava, invece, un ruolo fondamentale.

Apprezzabile l’intuizione di avvalersi di solo due coreuti, un uomo e una donna, a fronte dei 15 voluti da Sofocle, a significare, secondo la dichiarazione della stessa Parrella, la scomparsa della collettività «isterilita nell’individualismo». Purtroppo i due giovani attori non sono all’altezza del compito, facendo scivolare troppo spesso la tensione, incapaci di reggere l’impostazione surreale ed estraniante ottenuta dall’Aprea e da Serra (ma anche gli altri tre attori, Anita Bertolucci, Alfonso Postiglione e Fabrizio Nevola, non sono da meno). Quasi a dimostrare, loro malgrado, che l’individualismo del nostro tempo è scevro di qualsivoglia riferimento eroico: è piuttosto un vuoto esercizio di maniera, tutto svolto e fatto da un posizionamento nello spazio scenico. Peccato, perché impedisce al testo della Parrella di ottenere fino in fondo quella catarsi propria della tragedia. Rimane l’irrisolto, di un Uomo in costante contrapposizione tra natura e cultura. [francesca romana buffetti]