Si
apre il sipario, in scena Lella Costa, sola, seduta
al centro del palco avvolta da uno sfarzoso mantello:
ecco Amento che prende voce. Non si tratta però
della tradizionale rappresentazione della tragedia di
Shakespeare ma di una riflessione sul tema attraverso
un’indagine storica del soggetto che affonda le
radici nella lontana commedia di Saxo Grammaticus e
del suo “Amled”. Perché Amleto, avendo
superato i confini del tempo, è rientrato in
modo beffardo nell’hit parade americana dei personaggi
più famosi dell’umanità, accanto
a Babbo Natale.
Tutti crediamo di conoscerne la storia, ma il principe
danese non è soltanto un personaggio dotato di
teschio e gorgiera allorché pronuncia le famose
parole “essere o non essere”. Lella Costa
ci guida in modo superbamente avvincente, alternando
tensione drammatica estrema e comicità nell’indagine
di un simbolo dell’umanità eterna. La protagonista
è Amleto, ma anche Polonio, Ofelia e l’onesto
Orazio unico testimone sopravvissuto. Riesce a calcare
la scena con movimenti misurati, in modo che ogni gesto
assuma un significato intenso e puntuale.
Una riflessione audace quanto filologicamente inappuntabile,
come la scelta di una scenografia minimalista dettata
dalla volontà di riproporre il teatro elisabettiano,
o meglio quel teatro in cui Shakespeare inscenava le
sue mirabili opere. Erano tempi in cui il pubblico non
aveva bisogno di troppi artifici per lasciarsi condurre
nella trama e volare con l’immaginazione, seguendo
lo snodarsi degli eventi. Una fastidiosa buca al centro
della tavola messa di sbieco ed ecco apparire the hell,
la botola ma anche inferno, unico stratagemma teatrale
disponibile nel rinascimento che assume tuttavia il
valore di tomba dove il prezioso e amato corpo della
bella Ofelia – simboleggiato dal manto ripiegato
– viene dolcemente riposto.
Gli altri defunti, personaggi biechi e mediocri, che
tanto ricordano taluni protagonisti dei tempi moderni,
non meritano questo trattamento: i loro corpi sono sacchi
colmi di mele rosse che rotolano sul palco come i fiumi
di sangue che vengono versati fin da quando esiste il
genere umano. L’Amleto messo in scena da Lella
Costa è un’analisi dell’umanità,
delle sue debolezze e fallibilità; la magistrale
disamina della poliedricità dell’essere
umano che spesso per sopravvivere a intrighi di corte
e regni assolutistici assume le sembianze della follia
come unica via per conservare la virtù. Molteplici
le chiavi di lettura e i registri con cui l’attrice
espone i diversi characters: dall’eloquio garbato
e sottile quando è Shakespeare, al pathos narrativo
disarmante di Amleto, fino alle grottesche e risibili
argomentazioni del giullare Polonio.
Il testo di Costa, Gallione e Cirri che molto sarebbe
piaciuto a Shakespeare; i costumi preziosi ed impalpabili
di Marras, le musiche composte dallo straordinario Bollani,
la perfezione della scenografia di Fiorato e l’asciutta
regia di Gallione: tutto concorre a rendere l’Amleto
semplicemente superlativo.
[paola di felice] |
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