Perché hai scelto di mettere
in scena questo noir?
Serena
Sinigaglia Sono un’amante di noir. Quando
voglio liberarmi la mente non guardo la tv ma leggo un giallo
perché è un gioco, è un rebus, è
come le parole crociate, mi tiene desta l’attenzione.
Si tratta quindi da una parte di una passione, ed è
bello mettere nel proprio lavoro anche una cosa che fai per
divertimento, dall’altra, volevo fare un regalo ad un
attore, un’attrice in questo caso, e desiderando fare
il punto con lei su dove sono arrivata, su quale è
stato il percorso fatto con questa persona, mi diverto su
un genere che mi appassiona.
Infine, volevo parlare di Milano, la mia città e quella
di Arianna, il luogo in cui siamo nate e cresciute ed è
una città nei confronti della quale è difficile
trovare qualcuno che non abbia una relazione tragica, di amore
e odio, di attrazione e repulsione contemporaneamente; è
il luogo che ci siamo trovate in eredità. Poi Milano
è una città poco cantata, perché è
una città difficile, come tutte le città un
po’ brutte e quindi poco cantate dai poeti a differenza
di Roma, Venezia, Firenze.
Cosa ti aspetti dalla città
di M?
Serena
Sinigaglia Sono portata ad essere un
po’ pessimista perché a me sembra che Tangentopoli
sia stata non l’inizio di una nuova epoca, ma il colpo
di coda, il canto del cigno di un’epoca dove i valori
etici, l’importanza dei servizi sociali, la città
vissuta con la partecipazione dei cittadini, la dignità,
avevano un altissimo valore. È stato il canto del cigno
dell’eticità della città di M., non l’inizio
di qualcosa di buono bensì di un peggioramento. Non
vorrei andare sul politico, ma penso che gli amministratori
e i politici abbiano la responsabilità del declino
morale ed etico della città, della poca valorizzazione
del potenziale che questa città ha. Lo vedo anch’io
nella mia realtà di teatrante che per molti anni non
sono stata aiutata dalle istituzioni.
La città di M. è una città che mi ha
delusa: quando ero bambina mi piaceva di più! Ero fiera
di essere milanese. Invece adesso, da Tangentopoli in poi,
mi è sembrato che nessuno abbia saputo migliorare la
situazione.
Nella città di M. i personaggi sono soli, fanno fatica
a comunicare, a fermarsi e guardarsi. È la città
del taxista che supplica di essere lasciato in pace e libero
di vivere e soffrire; di colui che non ha mai fatto male a
nessuno e non vuole essere coinvolto in fatti che non lo riguardano
ma se viene accusato di menefreghismo si indigna.
Pensi che il teatro possa aiutare ad
evitare quel carcere, quella solitudine e quella paura di
cui si parla?
Serena
Sinigaglia Si!Il teatro è una
risacca di resistenza positiva all’alienazione cittadina,
perché è il luogo per antonomasia dell’incontro,
o meglio, dell’incontro straordinario nel senso proprio
dell’intensità del rapporto, della relazione;
è un luogo dove ti occupi della qualità di relazione
tra le persone e quindi è un luogo che crea legami,
che unisce, non disgrega, non aliena, non lascia in solitudine;
è un luogo dove vai a pensare e dove vai (quando è
fatto bene) ad emozionarti, quindi è un luogo pieno
che ti offre un’esperienza densa e ti fa incontrare
altre persone.
Cruda realtà, ma anche ironia?
Serena
Sinigaglia Sulla realtà cruda
non c’è molta ironia; al massimo vuole esserci
uno sguardo un po’ alla Tarantino, il desiderio di offrirti
lo specchio dell’assurdo. Ad esempio, il commissario,
il Bagni, parla al telefono d’amore in mezzo al sangue.
Un po’ come in Pulp Fiction quando spara il colpo per
caso e la macchina s’imbratta del cervello di quel poveretto.
Viviamo in una società dove la violenza ti riguarda
e ti circonda talmente tanto che non la vedi più, non
te ne accorgi e quindi si creano situazioni paradossali. E’
lo specchio della nostra insensata cecità, ma c’è
un grande rispetto per chi è vittima di questa crudezza.
Sicuramente, sia nel testo che nello spettacolo c’è
ironia perché io amo l’ironia e credo che anche
Piero la ami e quindi ci troviamo assolutamente in accordo.
Ma questo “alla Shakespeare”: non c’è
tragico se non c’è comico; la vita è una
tragicommedia e quindi se vuoi descrivere la vita delle persone
per forza incapperai in momenti di altissima tragedia e in
momenti di altissima ridicolaggine.
“Un tempo la città di
M. un cuore ce lo aveva”. Dove è finito? Lo si
può ritrovare?
Serena
Sinigaglia Secondo
me lo si può ritrovare in quegli sprazzi buoni e positivi
che la città ancora ha, nel fermento culturale, nei
gruppi off off off che lavorano, nei pittori, negli artisti
che si muovono anche senza soldi, senza niente, ma che lo
fanno a Milano. La cosa bella di Milano è che l’efficienza
porta a fare le cose bene fino in fondo anche senza soldi
con serietà e questo ha assicurato alla città
un fermento di idee, di possibilità culturali serie
e reali. A Milano non ci si perde: la sua bruttezza la preserva
dalla dispersività e se hai un desiderio e lo vuoi
mettere in pratica questa è la città giusta,
perché nella nebbia, nel grigiore, nel freddo, ti chiudi
in una stanza e ti metti a cantare con un gruppo, ti metti
a fare ricerca universitaria, ti metti a fare uno spettacolo,
ti metti a dipingere e ti fai venire delle idee incredibili
per un romanzo. E’ paradossalmente un luogo con un grande
potenziale creativo che forse può salvare la città
stessa e riportarla ad una vivacità che mi sembra essersi
un po’ spenta a causa di chi ci ha governati e che ha
voluto dirigere la città solo in alcuni sensi, tralasciandone
completamente degli altri.
Ad una prova hai detto che stimi Larvetta.
Perché?
Serena
Sinigaglia (Ride)
No, lo dico per simpatia. Non lo stimo molto in verità
perché anche il Larvetta ha sviluppato una corazza
che lo porta ad essere indifferente. Quindi non posso stimare
chi ha atteggiamenti indifferenti per quanto non credo di
esserne immune, come nessuno di noi, magari lo siamo e non
ce ne rendiamo conto. Dico che lo stimo perché mi fa
ridere, perché lo riconosco: ho degli amici così
nei modi, nelle forme, assolutamente non nella sostanza, e
pur nell’indifferenza sono persone sensibili, acute
e attente. Mi fa molto ridere, è un personaggio comico
che va incontro a un sacco di sciagure, si dà un sacco
di arie ma va incontro ad un sacco di sfighe.
Nei tuoi spettacoli c’ è
un rapporto importante tra testo, azione, narrazione e musica.
Ci racconti le tue scelte musicali per questo nuovo noir?
Serena
Sinigaglia La
scelta musicale è molto radicale: solo musica classica.
Perché la musica classica mi permette di descrivere
un fatto di cronaca come quello scelto da Piero e un fatto
quindi in qualche modo non epico, ma di un’avvilente
quotidianità: non è Medea che ammazza i bambini,
ma una poveretta che ha un figlio deficiente nel senso di
deficitario, matto, che sente le voci e che in preda ad un
attacco schizoide la uccide. Non c’è niente di
epico in tutto questo. Allora proprio per questo devo usare
la musica come se fosse in verità un racconto epico,
come se questa donna in quel momento fosse Clitennestra. È
come se sentissi sulla scena di dover andare per contrasto,
non per analogia. E poi Mina. Mina non stona perché
ha la sua epicità all’interno di un contesto
musicale epico. È una forma di epicità contemporanea.
Un noir di un drammaturgo contemporaneo
e per giunta vivente. Quanto ha inciso sul tuo lavoro?
Serena
Sinigaglia Penso
che il noir per un regista sia un genere estremamente stimolante
perché devi costruire un meccanismo ad orologeria.
È una sfida con lo spettatore. Questo testo l’abbiamo
quasi riscritto se non a sei mani (io, Piero e Arianna Scommegna),
quanto meno sicuramente a quattro mani. L’idea primigenia
è di Piero, poi passa attraverso di me, io lo ridigerisco,
io lo rimando, lui me lo rimanda, lo lavoro con Arianna, a
questo punto lo risistemiamo e lui ci mette il suo timbro.
Diventa veramente una relazione collaborativa. Il testo che
va in scena non è quello che Piero aveva consegnato
due mesi fa. Ma questo è il bello dell’autore
vivente. È la verità della relazione viva.
Una stanza, un sipario di sangue in
declivio, l’uso del neon…a quale atmosfera hai
pensato per questo spettacolo?
Serena
Sinigaglia A un limbo di cemento perché
la città di M. è un limbo di cemento, una camera
mortuaria, ma anche il paradiso. Il sangue è colore,
è sia la morte sia la parte buona della città,
il sangue che non si rassegna a congelarsi nelle vene, il
sangue che aumenta i battiti cardiaci, la circolazione sanguinea
quando hai un’idea e la vuoi realizzare. Il famoso potenziale
creativo della città che scorre nel cemento, tra le
pieghe del cemento nonostante tutto e tutti, nonostante il
cemento stesso e lo smog.
Serena cosa vorresti che rimanesse
al pubblico della vostra città di M.?
Serena
Sinigaglia Non una sola cosa. Tante
cose! Mi prefiggo sempre di far vivere al pubblico una cosa
intensa, una piccola vita in un’ora e mezza. L’intento
è farlo ridere, farlo piangere, farlo riflettere su
questa città. Sono curiosa di sapere cosa penseranno
di questo pensiero un po’ pessimista sulla città
di Milano. Pessimista, ma non rinunciatario! Non sconfitto!
Voglio ancora lottare, non rinuncio. Quindi sono anche curiosa
di capire. Non mi prefiggo uno scopo preciso. Se io riesco
ad emozionare, a divertire, a coinvolgere, a farmi capire
dalla gente….io il mio mestiere dai, me lo sono portata
a casa.
Arianna è un’attrice di
grande energia, poesia e concretezza. Come è stato
questo tuo lavoro con lei anche se il vostro è un rapporto
che dura ormai da anni?
Serena
Sinigaglia Arianna ha fatto
la scuola con me quindi adesso sono quindici anni che ci conosciamo
e dieci che lavoriamo insieme a quasi tutti gli spettacoli
perché lei ha fondato con me l’ATIR. Ho imparato
che la fiducia non è un valore acquisito per sempre,
la devi continuamente sempre rinnovare. Una relazione per
mantenersi viva deve essere sempre costantemente dialettica,
bisogna essere capaci di mettersi vicendevolmente in crisi,
di non sedersi mai su delle presunte sicurezze. Il nostro
è un rapporto dialettico. Molto. Questo è un
buon periodo!
Sette personaggi, uomini e donne interpretati
da una sola attrice. Esseri umani diversi e alcuni perfino
opposti che vivono o meglio sopravvivono nella stessa città,
la città di M., la città del noir. Come può
una sola interprete rappresentare così tante facce,
sensazioni e pensieri di un’unica realtà?
Arianna
Scommegna Una mia caratteristica è
proprio lavorare sui personaggi, mi posso definire un’attrice
caratterista. Mi ricordo che una volta a scuola lavorando
sui personaggi avevamo parlato dell’albero genealogico:
ognuno di noi ha un albero genealogico dove ci sono i nonni,
gli zii, il papà e la mamma e tu racconti tutto quest’albero
genealogico che hai dentro di te anche se poi sei sempre tu
ovviamente. Tutti personaggi che hanno parti di te: buone,
cattive, invidiose….Ognuno di noi ha tutti i caratteri.
Ogni persona poi ne ha più sviluppato uno rispetto
agli altri però potenzialmente li possiede tutti .
Siamo anche dei potenziali assassini.
La città di M. è la città
della solitudine e dell’indifferenza: gli uomini corrono
dietro ai fantasmi, la giornalista costretta ad una continua
frenetica corsa chiede di fermarsi perché tanti hanno
bisogno d’amore, ma il problema è la paura. È
così?
Arianna
Scommegna Il discorso sulla paura credo
che sia molto, molto attuale. Forse lo è sempre stato,
ma adesso mi sembra in maniera particolare: essendo crollati
tanti punti di riferimento ed essendo nati e cresciuti nel
vuoto di ideali e di punti di riferimento, credo che la paura
sia una grossa componente della nostra vita. Soprattutto nella
nostra città perché magari in un paese è
più facile essendo una piccola comunità non
perderti di vista; in una grande città fai fatica a
trovare delle relazioni dense anche se poi Milano ti dà
delle opportunità di questo tipo, ti dà la possibilità
di creare. Ma devi essere molto bravo e fortunato. Io mi ritengo
fortunata perché ho trovato delle persone stupende,
i miei compagni con cui ho fondato l’ATIR e per me sono
anche i maestri.
“A stare tanti anni per le strade
di una città finisci che non capisci più dove
sta il limite tra te e lei, dove finisci tu e inizia lei e
viceversa”. La stessa cosa vale per te attrice con i
tuoi personaggi dopo ore e ore di prove ? Che rapporto hai
con loro?
Arianna
Scommegna (ride) Si! Se ti potessi
raccontare i sogni di queste notti…. Sicuramente il
personaggio te lo porti ovunque, non riesci a staccare e quindi
penso continuamente a loro. A me piace molto nel mio lavoro
stare a guardare. Infatti è stato molto utile l’incontro
alla questura di Milano con una poliziotta. Osservo le persone,
cerco di scoprire i dettagli dei loro caratteri per poi poterli
recuperare in modo preciso quando do’ vita ai personaggi.
Quando studio a casa, mio figlio mi vede fare tutte queste
voci e un po’ ride, un po’ è perplesso
….è un gioco!
“La città con tanti immigrati
, italiani e stranieri si gonfia di gente che è venuta
qui a sudare , ma forse cercava un sorriso , cavoli , che
cosa è un sorriso , mamma ?” Arianna che cosa
è per te un sorriso ? Può essere un aiuto per
vivere in una città di M.?
Arianna
Scommegna Assolutamente
si. Quando ero piccola mi chiamavano “la tragedia greca”e
di fronte ai problemi sono sempre molto seria, cupa. Invece
a volte, mi rendo conto che soprattutto nei momenti di difficoltà
se fai un sorriso ti cambia l’universo anche se non
sai trovare la soluzione. Non sempre ci riesco…Però
mi ricorderò sempre di quando Laura Curino per la prima
delle Troiane ci ha detto: “fate un respiro e poi un
bel sorriso!” A volte sorrido alle persone per strada
e vedo che cambiano.
Se il copione questa volta lo scrivessi
tu, cosa vorresti dire della città di M.?
Arianna
Scommegna Vorrei dare più spazio
a tutta quella parte solare, resistente che dà la forza
di continuare. Adesso nella città di M. c’ è
un colore amaro che dipende sicuramente da come viene gestita
la città, quella è una grossa responsabilità.
Però dipende anche dagli stessi cittadini che devono
riuscire a creare una comunità che produce, ma integra.
In caserma dicevano che la maggioranza dei crimini è
commessa da extracomunitari, ma è ovvio perché
sono loro le persone con più disagi.
Arianna, il tuo percorso teatrale con
Serena dura ormai da anni. A che punto della vostra ricerca
siete arrivate?
Arianna
Scommegna Sono
incredibilmente affascinata dalla possibilità di costruire
con una persona una relazione sempre più profonda,
più intensa. Il rapporto rimane vivo se riesci a stupirti,
a sentire sempre il frizzantino. Serena per me è straordinaria
come persona, cittadina e leader. Il nostro lavoro è
basato sul coro, sul racconto di tante voci, ognuna diversa
dall’altra, con un suo carattere. Questa diversità
ci ha permesso di vivere. Ad esempio con Troiane siamo riusciti
a raccontare la storia di un popolo costituito da tanti individui
che anche se dicono poche battute sono forti e vivi come i
protagonisti o i coprotagonisti.
Un ottimo lavoro di squadra: quando hai poco spazio non lo
giudichi, ma lo comprendi e chi ha più spazio fa in
modo che anche i ruoli minori lo possano prendere.
Normalmente un regista sceglie di mettere
in scena un monologo per un atto di generosità nei
confronti di un attore o di un’attrice. Come vivi questo
regalo che Serena ti ha fatto?
Arianna
Scommegna Sono felicissima. Per me
è un regalo prezioso perché mi permette di lavorare
molto di più sola con lei. Lo vivo come un dono. Però
anche se è un monologo rimane sempre un lavoro di squadra:
i costumi, i tecnici, le musiche, le luci…è sempre
un lavoro collettivo che proprio perché di gruppo ha
contribuito alla crescita dello spettacolo.
Quale è la tua meta d’attrice,
il tuo “appuntamento” con il teatro?
Arianna
Scommegna Una crescita, una scoperta
quotidiana. Il mio lavoro con l’Atir è il mio
progetto di vita e spero che continui ad esserlo. Vorrei che
la compagnia avesse un teatro, un luogo per poter diventare
un riferimento anche per la città.
Una domanda che tu stesso autore poni
all’inizio dello spettacolo: “perché scrivere
un noir ambientato nella città di M.?” Pensi
si riesca ancora a comunicare e quindi ad amare, ammesso che
ci sia un nesso tra la comunicazione e l’amore?
Piero
Colaprico C’è chi dice che si
scrive per amore di qualcuno o a volte anche per odio verso
qualcuno. Questo non è un testo che parla solo d’amore,
parla anche di disperazione, di odio. Ma la comunicazione
non ha a che fare sempre solo con i sentimenti; però
parlare della città di M. che è una città
con ancora una forte identità, dove ancora c’è
tanta gente che viene carica di speranza (lo si vede spesso
ad esempio dalle lettere che alcuni scrivono ai giornali)
ha senso perché la gente ancora cerca qualcosa, questa
identità non si è persa. Quindi lo spettacolo
ricostruisce questa identità. Un’indagine in
cui alla fine il colpevole, ma anche l’investigatore
è sempre la città, se non noi.
La scelta di scrivere un monologo
è forse legata alla solitudine dei personaggi, dell’
essere umano nella città di M.?
Piero
Colaprico Soprattutto nasce dall’esigenza
di far provare ad un’attrice, un attore, insomma una
persona, la possibilità di cambiare personaggi. A una
regista la possibilità di cambiare scene e cambiare
situazioni nonostante siano tutti sempre sullo stesso palcoscenico,
ci sia una sola persona a recitare. A me l’esigenza
è venuta non tanto dalla solitudine quanto dall’identità.
Alla fine siamo tutti la stessa cosa.
Cosa ti aspetti dai tuoi personaggi?
Piero
Colaprico Non mi aspetto da tutti la
stessa risposta. Da Bagni che è il mio protagonista,
quello che compare nel libro “Trilogia della città
di M.”, mi aspetto che sia un poliziotto molto concreto
ed efficiente; è l’unico che ha un nome e tutti
gli altri hanno solo un nome generico per la ragione di prima.
Dalla sua collega, la poliziotta, mi aspetto che incarni il
passaggio tra la memoria di come eravamo e un tipo di presente
in cui ci troviamo e dalla giornalista che è apparentemente
un personaggio superficiale, mi aspetto le virgole che a volte
noi mettiamo nei nostri sentimenti, mi aspetto proprio che
sia lei a far riflettere di più.
La città di M. è la città
di Tangentopoli e Plasticopoli. Quanta responsabilità
hanno i politici in questa città e cosa pensi dovrebbero
o avrebbero dovuto fare?
Piero
Colaprico Io mi sforzo di essere aideologico
e imparziale anche se non sempre è possibile. Secondo
me il grande dramma che è venuto dopo tangentopoli
da parte dei politici è che molti di loro sono imprenditori
e gli imprenditori che fanno politica, secondo me, vengono
da generazioni di aridità e di profitto e quindi hanno
pensato che l’orgoglio della città passasse semplicemente
attraverso il successo economico, un’efficienza ….
Non è così: i sindaci di prima di tangentopoli
potevano essere discutibili per certi comportamenti, ma avevano
la misura complessiva della città. Secondo me la nuova
politica ha diviso la città nella città di serie
A, dove c’è una grande efficienza, vigili urbani
molto cortesi, passatoie, vetrine formidabili…Poi una
città di serie B dove vive la gran parte di noi e quella
di serie C completamente dimenticata dove “vivono i
cattivi”. L’armonia che una volta si cercava,
un modello, l’utopia socialista, credo che quella sia
definitivamente scomparsa. Quindi la responsabilità
dei politici è di aver fondato una città piramidale,
mentre la città non è piramidale, ma rotonda.
Si dovrebbe cercare un’onestà che non è
solo un’onestà nei bilanci o nei comportamenti,
ma un’onestà delle idee, cioè se lavoro
per la città devo ascoltare tutte le voci delle città.
Basterebbe che qualsiasi politico avesse questo tipo di onestà.
È una città complessa perché viviamo
in un periodo di immigrazioni di miserabili da ogni parte
del mondo e non è che siccome sono dei miserabili sono
per forza dei reietti e bisogna ascoltare anche loro.
A proposito degli immigrati a un certo
punto del tuo noir dici che forse gli immigrati si aspettano
un sorriso quando vengono da noi. È così?
Piero
Colaprico Non ho dubbi su questo. Penso
che tutti da noi si aspettino un sorriso. Anche noi stessi,
ogni volta che ci muoviamo, anche in incontri fugaci, occasionali,
non ci aspettiamo niente perché abbiamo imparato a
convivere con un mondo brutale e a volte squallido o negativo,
però quello che noi ci aspettiamo è un po’
di gentilezza e un po’ di cortesia. Qui invece si è
persa, sembra che l’importante sia essere efficienti,
ma non è affatto vero perché a volte basta un
sorriso, un tentativo di provare a condividere. Credo che
il famoso cuore in mano di Milano si sia inaridito.
Cosa pensi del progresso scientifico?
Piero
Colaprico Penso che l’ignoranza
ci faceva credere di essere al centro del mondo, quello che
non siamo. Più ci sarà progresso, più
ci saranno scoperte, avanzerà la medicina, la scienza,
le arti, più crescerà la chimica più
capiremo come dei nostri sentimenti dipendano da enzimi o
proteine. Quindi non è un’accusa al progresso,
ma è che ogni volta che il progresso dice appunto che
non siamo al centro dell’universo, la psicologia ci
fa scoprire imperfetti, spesso ci rassegniamo a queste imperfezioni
e invece dobbiamo andare contro la rassegnazione e avere più
rispetto gli uni degli altri. Ma adesso siamo in questa situazione,
quindi descrivo quello che vedo adesso.
Sfogliando il tuo copione mi accorgo
che con l’uomo dell’obitorio nasce il tema dell’assurdo.
Possiamo pensare che questo noir sia un testo di teatro dell’assurdo?
Piero
Colaprico No. Sto leggendo da alcuni
anni anche Beckett, ma non mi sto ancora vendicando con registi
e attori imponendo l’albero in scena (ride). Che questo
sia un mondo assurdo io ne sono conscio (ride), ma non credo
che il mio sia teatro dell’assurdo. Penso che il noir
sia oggi uno dei pochi mezzi veloci per mettersi a contatto
con un gran numero di persone. È vero, c’è
l’attesa di qualcosa che non arriva e che quando arriverà
io mi auguro sia una sorpresa; ci sono situazioni che in una
normale inchiesta giudiziaria, penale o poliziesca non trovi,
ma tutto è legato all’esigenza di dare un’identità
alla città di M.
A volte i registi portano in scena
testi di autori del teatro classico. Tu invece sei un drammaturgo
contemporaneo, vivo, un uomo che conosce e osserva la realtà
di oggi. Cosa è significato per te lavorare vicino
ad una regista e ad un’attrice ?
Piero
Colaprico Sono portato a collaborare,
nel giornalismo questo aspetto è costante. Però
la sensazione che ho avuto lavorando con Serena e con Arianna
è quella di aver creato un trio incredibilmente forte:
il mio testo era più lungo, Serena mi ha chiesto di
tagliarlo, Arianna ha dato il suo contributo, io ho seguito
alcune prove per limare, aggiustare, ho dato dei suggerimenti,
ma la cosa curiosa è che chi aveva letto la prima versione
e chi poi l’ha riletto non si è accorto dei cambiamenti.
Questo vuol dire che è rimasta l’identità
forte del testo, della città di M., ma siccome so com’era
l’originale, so anche che gran parte del merito della
sua velocità e della sua intensità dipende dal
lavoro collettivo . Penso che in teatro, come nel cinema,
per certi aspetti ci si debba per forza confrontare, difendendo
certe cose e cambiandone, perdendone altre.
Quale può essere la funzione
del teatro oggi?
Piero
Colaprico In realtà non penso
che un libro, uno spettacolo televisivo, il cinema, il teatro,
la poesia aiutino a cambiare realmente il mondo. Aiutano però
gli abitanti del mondo a riflettere su chi sono e cosa vogliono.
Una poesia non è una leva di Archimede che serve a
costruire, ma serve a sentirsi in pace o in disaccordo con
se stesso e quindi comunque produce delle cose molto utili.
Se vuoi stare aderente alla realtà, anche oggi puoi
fare dei testi teatrali con la speranza che una storia serva
allo spettatore a riflettere. Poi magari su cento trovi uno
interessato che ti fotografa.
Ci può essere una svolta nella
città di M?
Piero
Colaprico Si!!!! Nella città
vera penso che ci sia perché nonostante sia un posto
dove è faticoso vivere, dove tutto costa molto, dove
i giovani hanno difficoltà, ma si possono ancora fare
delle cose. Una svolta è nelle cose e Milano è
sempre abbastanza ricresciuta. Vero è che bisogna ristabilire
un equilibrio altrimenti si perde la leva per andare avanti.
C’è però uno scontento, un’infelicità
legata alle difficoltà. È una città che
ha perso la sua identità e deve trovare ancora un’altra
idea. Per quello che riguarda la città di M. continuerò
a fare almeno altri due lavori.
| lo
spettacolo |