Ha intravisto la funzione
civile del teatro.
Gli attori si truccano e attraverso la finzione teatrale parlano
della realtà. Raccontiamo le favole di Fedor Dostoevskij,
di Luigi Pirandello, Samuel Beckett e nel contempo parliamo
della vita di tutti noi, delle nostre brutture, speranze e
gioie. Questa affabulazione trasmette alla gente ricchezza,
emozioni, sensazioni. È chiaro, il teatro non può
lanciare dei punti esclamativi, delle verità, solo
degli interrogativi, delle inquietudini. Se il pubblico in
sala torna a casa con dei dubbi su cui riflettere, allora
il lavoro dell’attore ha avuto un’utilità.
Per il secondo anno consecutivo
propone la riduzione teatrale del romanzo “Delitto e
castigo”, scritto da Fëdor Michajlovic Dostoevskij.
Come mai?
Perché Dostoevskij ha influito sia sul mio modo di
essere attore, che uomo. Quando avevo quattordici, quindici
anni, nell’immediato dopo guerra, ho cominciato a leggere
furiosamente tutti quei libri non ancora pubblicati o considerati
illegali. Tra gli altri mi sono imbattuto nell’universo
del romanziere russo. Ne sono rimasto profondamente impressionato,
in particolare da una frase presente ne “I fratelli
Karamazov”. Dimitri dice al fratello Alioscia: “Il
diavolo e dio sono sempre in lotta tra loro, e il loro campo
di battaglia è il cuore dell’uomo”.
Questa espressione è
presente nella sua trasposizione di “Delitto e castigo”.
Non ho potuto evitarlo: è perfetta. Sin dalla prima
lettura ho avuto la sensazione che Dostoevskij, come poi tutti
i grandi, non abbia mai guidicato l’uomo. Al contrario:
desiderava comprenderlo con enorme, tenera pietà. L’uomo
vive una lotta quotidiana tra il bene e il male; solo dentro
questa battaglia la vita è degna di essere vissuta.
Tra l’altro “Delitto e castigo” è
uno di quei testi in cui il problema della comprensione dell’uomo
è alla base.
Il romanzo descrive le angosce
e i turbamenti di un giovane studente pietroburghese, Rodion,
che uccide un’usuraia per dimostrare di essere un uomo.
Cosa l’ha attratta?
Mi ha intrigato il modo come l’assassino viene aiutato
a costituirsi, a togliersi questo fardello di dosso. Gli artefici
della conversione sono due. Una è Sonya (Cristina Arnone),
una prostituta, che rappresenta l’amore e insieme la
via religiosa; l’altro è il giudice istruttore
Porfirij (interpretato da Mauri, nrd). Un uomo all’apparenza
grottesco, che alla fine si scopre di una grande umanità:
il giudice tenta, usando persino le stesse frasi di Sonya,
di far costituire Rodion attraverso la via laica, propria
dell’uomo che ha il dovere di comprendere i suoi simili.
Dostoevskij ha influenzato
la sua visione filosofica della vita?
Senza dubbio. C’è un’altra frase che trovo
emblematica. È stata scritta da Dostoevskij al fratello,
quando il romanziere aveva solo diciotto anni: “L’uomo
è un mistero difficile da risolvere. Io voglio cercare
di comprendere questo mistero perché voglio essere
un uomo”. Era il 1839. Evidentemente l’autore
de “L’idiota” aveva già intuito che
avrebbe dedicato vita e arte a cercare di scavare nelle oscurità
dell’essere umano. Questa urgenza di capire senza mai
giudicare mi è rimasta come monito. Nonostante abbia
più di settant’anni, ho deciso con pudore e rispetto
di realizzare a teatro “Delitto e castigo”, per
far capire al pubblico in sala che dobbiamo cercare “di
parlare, di comprenderci, nel bene e nel male”.
Dal 1946 al 2006. Cosa è
cambiato a teatro da quando ha iniziato?
Nulla. Rispetto a quando ho iniziato, c’è persino
più lavoro per i giovani, nonostante l’enorme
confusione. Ai miei tempi non si poteva scegliere tra fiction,
teatro, cinema, tv, radio e doppiaggio. Negli anni Quaranta
o facevi teatro, con una grinta luminosa, o niente. Nel terzo
millennio ci sono molti ragazzi al lavoro. Inoltre, durante
la grande avanguardia, per esempio con Carmelo Bene, gli artisti
mettevano a disposizione la loro genialità, la tecnica
per allestire uno spettacolo tratto da un classico. Le nuove
leve si scrivono testi che parlano della vita, dei loro problemi.
Magari sono opere non riuscite completamente, ma mostrano
vitalità.
Ha interpretato tutti i capolavori shakespeariani; ha lavorato
con i massimi nomi del teatro italiano come Renzo Ricci, Giorgio
Albertazzi, Anna Proclemer, Franco Enriquez, Valeria Moriconi,
Mario Scaccia e tanti altri. La sua bravura è riconosciuta
all’estero. Ha mai avuto paura di salire sul palcoscenico?
Mai. Posso essere agitato, teso, ma in maniera gioiosa, mai
lugubre. Alcuni colleghi raccontano di notti insonni, di palpitazioni.
Nonostante sia un interprete caldo non vivo queste dinamiche,
riesco a controllare l’emozione.
Come mai ha deciso, nel 1981,
di formare una compagnia teatrale, la Mauri – Sturno?
Per molti anni sono stato un cavallo condor. Si tratta di
una razza di cavalli tedeschi usata per il trasporto delle
merci. Lo sono stato per vari teatri stabili. Poi a 51 anni
mi sono reso conto, nonostante ricevessi molte scritture,
che volevo avere l’ultima parola sui testi, sul lavoro
svolto. Ho pensato fosse il momento di correre da solo, piuttosto
che dare la volata agli altri.
Il sodalizio con Roberto Sturno
è nato per caso?
Roberto, molto più giovane, aveva già lavorato
con me e Valeria Moriconi nel “La Bisbetica Domata”.
Ho trovato in lui le qualità che cercavo. Con il passare
del tempo è nata un’amicizia. Per molti anni
è stato mio figlio; ora io sono suo figlio. I suoi
bambini sono i miei nipoti d’amore. È nato un
legamene straordinario, in cui lui porta un contributo di
giovinezza, freschezza, organizzazione fondamentale. Insieme
scegliamo testi che ci permettono di fare spettacolo, visto
che il teatro deve essere prima di tutto emozione. Non può
mancare il divertimento, che sia attraverso le lacrime o con
una risata poco importa. Nel contempo tentiamo di proporre
testi che aiutino qualcuno ad uscire da teatro più
ricco di come entrato.
Cosa crede manchi alle nuove
leve?
Partiamo dall’assunto che il teatro sta alla vita come
il vino sta all’uva. Il palcoscenico è l’essenza
della vita: quando si recita bisogna essere semplici, senza
mai interpretare la semplicità della vita, altrimenti
il pubblico verrebbe a bere una camomilla! A teatro la semplicità
è costruita, senza però determinare una costruzione
geometrica e fredda. In altre parole alla base di un buon
attore c’è la tecnica. Ed è quello che
manca ai giovani. Non riescono ad acquisirla perché
costretti ad arrivare al successo il prima possibile. Il ricambio
è ingiustificato… Sono stato fortunato: ho iniziato
dalla buca del suggeritore, ho lavorato con i più grandi
attori, studiandoli in quinta. Questa è la vera scuola.
Memo Benassi, Lilla Brignone, Gianni Santuccio, Gino Cervi,
Salvo Randone, Anna Proclemer… Osservarli recitare,
scoprire come di sera in sera riuscissero a trasformare l’interpretazione
restando sempre fedeli al personaggio è stato incredibile.
Manca la gavetta”.
Nel suo curriculum ci sono
poche interpretazioni cinematografiche. Ha recitato in “Profondo
Rosso” di Dario Argento (1975); in “Ecce Bombo”
diretto da Nanni Moretti (1978); con Marco Belloccio ne“La
Cina è vicina” del 1967; “L’ospite”
diretto da Liliana Cavani (1971). Tutti registi significativi.
Devo ammettere di non averlo mai cercato. E quando è
stato lui a farlo, spesso l’ho rifiutato. Il cinema
non mi ha mai divertito. Non ti senti libero come a teatro,
non c’è la ginnastica della mente e del cuore.
Quando il sipario viene tirato, il pubblico lo si deve catturare;
al cinema è la macchina da presa, il regista che ti
cattura. È un lavoro troppo frammentario. Preferisco
continuare a scommettere.
Scommettere su cosa?
Sulle tavole del palcoscenico. Oggi come oggi la vera avanguardia
è fare teatro nel modo giusto. Sul palco un fiore finto
è più bello di uno vero. La poesia è
diversa da quella creata con la tecnologia. Il pubblico deve
tornare bambino e credere che ciò che sta accadendo
sia vero. Il cinema posso vederlo in una sala bella, brutta,
comoda, scomoda, piena di gente o meno. Lo spettacolo rimane
sempre lo stesso. In teatro mai. Ogni sera, a seconda del
pubblico presente in sala, la recitazione cambia. Il pubblico
ha lo spettacolo che si merita.