La saga
di Saw è arrivata al sesto capitolo. Una saga che ha
battuto tutti i record di incassi, una macchina macina soldi
che nel tempo ha fatto sempre a meno dello spunto iniziale,
indovinare quale sarà la prossima tortura dell’Enigmista,
per concentrarsi di più sull’effetto splatter
e sull’esposizione claustrofobica e ossessiva di arti
e membra spappolate, di organi interni e litri di sangue,
con gran goduria degli appassionati del genere che fanno il
tifo per il mostro, sorta di angelo sterminatore dei peccati
della società capitalista e molto meno per le vittime
colpevoli di peccati morali più che fisici.
Il meccanismo è assolutamente semplice nella sua essenziale
scarnificazione. E se si fossero perse le ultime puntate,
attraverso inserti e flashback che spezzano una sequenza truculenta
dall’altra, ci pensa il montaggio a fornirci tutti gli
indizi sui motivi che stanno dietro a questa sete di sangue.
Le spiegazioni etiche in un horror rasentano il ridicolo,
ma qui vanno ben oltre. Non c’è limite alla psicologia
da strapazzo degli sceneggiatori che cercano di riempire lo
spazio tra un massacro e l’altro. L’unico colpo
di scena viene risolto nei primi minuti del film. Chi è
dietro a questa carneficina è in realtà colui
che dovrebbe sventare i piani criminali del serial killer.
E dopo un’ora sarà lo stesso detective a sbarazzarsi
di due colleghi che volevano ficcare il naso in affari che
non li riguardavano. E così il quadro da fumetto è
completo e possiamo tranquillamente assistere alle morti che
si susseguono una dietro l’altra senza preoccuparci
di capirci alcunché.
Puro voyeurismo ma ha senso domandarsi sulla natura di questo
spettacolo in un’epoca in cui si è passati dall’etica
all’estetica senza troppi sacrifici di sostanza? Saw
soddisfa tutto questo e a tratti ci riesce pure bene. L’eccesso
è tale che non c’è più bisogno
di scandalizzarsi ma semmai si chiede al film di osare ancora
di più, di essere sempre più trash e di scavalcare
i limiti di pruderie che gli autori si ingegnano in qualche
modo a disseminare nei personaggi.
L’ambientazione è un labirinto carcerario, probabilmente
qualche vecchia fabbrica dismessa, e un rumore infernale costante
per quasi due ore ci dimostra che siamo metaforicamente dentro
l’immagine mentale del pazzo assassino piuttosto che
dentro un luogo fisico e reale. La trama è presto detta.
L’Enigmista è morto nell’ultimo capitolo
e il poliziotto che gli dava la caccia, affascinato dalla
sua preda, aspira a diventarne l’erede ma deve vedersela
con la vedova che non ha nessuna intenzione di chiudere qui
la faccenda. Chi ha negato l’assistenza sanitaria al
vecchio milionario che passava le sue giornate ad architettare
piani diabolici per le sue vittime, è un rampante direttore
di un’agenzia assicurativa che ogni giorno decide chi
meriti o meno la vita. In pratica grazie a un team di ragazzi
più avvelenati di lui, calcola le probabilità
che un cliente possa contrarre malattie letali. In base a
una squallida equazione matematica, viene garantita o meno
la copertura assicurativa. Questo sistema su cui si basa il
cinico sistema sanitario americano, invidiato in tutto il
mondo, è uno degli aspetti perversi della democrazia.
Per contrappasso colui che prende la missione di continuare
l’opera dell’enigmista, in base al suo testamento,
rapisce e sequestra l’assicuratore e lo costringe a
un percorso di autoanalisi del proprio comportamento immorale
calandolo nel gioco più splatter che possa immaginare.
Non c’è limite alla fantasia di chi vuole divertirsi
con i tuoi organi e così la vittima disegnata scena
dopo scena si ritrova a compiere una scelta tra se stesso
e altre vittime. Conoscenti, parenti, colleghi e altri personaggi
più colpevoli di lui rinchiusi in gabbie, incatenati
a macchine infernali che possono da un momento all’altro
strapparti le budella o farti schizzare il cervello. Questa
galleria degli orrori si dispiega davanti ai nostri occhi
provocando una nausea e un senso di disgusto a cui ci si abitua
in una noia totale. Non c’è differenza tra una
sequenza e l’altra, e non c’è differenza
tra un film elaborato in questa maniera e un videogame “sparatutto”
in cui ci si identifica con chi imbraccia un’arma e
deve cavarsela tra mille insidie sempre più violente.
Anzi in un videogame l’identificazione è più
immediata e provoca effetti più adrenalinici. Nello
spettacolo cinematografico tutto questo resta al di qua e
non stupisce più di tanto. La capacità di immaginazione
dello spettatore a quel punto è più potente
e più rapida di quanto possa costruire l’autore
di questi congegni e dispositivi assurdi. Permettere allo
spettatore tutto questo è molto rischioso come aveva
già teorizzato Hitchcock che infatti dava il minimo
di informazioni per poterlo meglio ingannare senza dare mai
l’impressione di essere sleale.
[matteo cafiero]