Marthe,
Michel e i loro tre figli vivono isolati lungo un’autostrada
costruita da anni e mai inaugurata. Quel tratto d’asfalto
è dunque parte del prato davanti a casa, o meglio ancora,
parte di un gioco. Quando però l’autostrada viene
messa in funzione e migliaia di macchine iniziano a sfrecciare,
la famiglia inizia ad affrontare impensate difficoltà.
Un segnale che cambia radicalmente la situazione e quello
che sembra uno straordinario status quo, all’insegna
di una famiglia perfetta con coloriture hippy, inizia a mostrare
piccole e grandi crepe di natura affettiva, psicologica, relazionale.
Crepe che si aprono proporzionalmente alle chiusure che la
famiglia apporta alla casa per difendersi dal rumore incessante
delle macchine che scorrono a pochi metri dalle loro camere
da letto e dalle polvere sottili che diventano l’incubo
ricorrente dei più giovani della famiglia. In inglese
ci sono due termini per esprimere il concetto di “casa”.
House a identificare l’edificio architettonico ed Home
per identificare gli affetti familiari. Quest’ultimo
è il titolo del primo lungometraggio della regista
franco-svizzera Ursula Meier, già regista di cortometraggi,
presentato alla Semaine de la Critique a Cannes 2008.
Una pellicola che vive di grandi contrasti spaziali, ampie
distese di campi esterni su cui si allunga la striscia d’asfalto
dell’autostrada e gli spazi angusti sempre più
claustrofobici degli interni della casa. Colori accesi e solari
degli esterni che contrastano con gli scuri degli interni
dove si sviluppano rapporti psicologici non sempre ben definiti,
dove l’allusione e il non detto prevalgono sulla chiara
esposizione. Un passato di gravi disturbi psicologici da parte
della madre, rapporti contrastanti quando non competitivi
con la figlia maggiore, sono elementi accennati ma non esplicati,
lasciati sospesi ma non approfonditi. Rimane un senso di incompiutezza
generale per un film inusuale, curioso, imperfetto, disunito,
da avvicinare con curiosità e circospezione. [fabio
melandri]