Colpisce la raffinatissima ed elegantissima metafora del manifesto del Gay Village di Roma 2015. Un campo coltivato a microfoni, con la didascalia: «Qui tutto ha un altro sapore».
La deriva piccolo borghese di una parte della cosiddetta cultura gay (chissà perché poi bisogna aggettivare la cultura), ormai rasenta la tristezza. Un tempo si chiamava umorismo di caserma, i doppi sensi con il continuo riferimento alle tette, al culo, ai cazzi grossi. Poi è arrivata il tempo delle veline e delle troniste, la carne un tanto al chilo, l’immaginario sessuale come repressione di massa.
Oggi abbiamo il trash gay, l’esibizionismo d’accatto, l’orgoglio coatto dell’attitudine sessuale.
Ovvero la trasgressione conformista.
Pier Paolo Pasolini si rivolterebbe nella tomba. Luchino Visconti pure. André Gide non ne parliamo. Aldo Busi e Paolo Poli sono vivi e urlano la loro differenza. Dai gay.
Concordo.
E dire che la cultura gay nasce come estrema ribellione al potere fondato sul dominio/sfruttamento – ribellione non politica, quindi più una auto seclusione in un mondo inaccessibile a chi non abbia le chiavi linguistiche per comprenderlo. Chi conosce Catullo, Petronio, Melville, Michelangelo sa cosa significa.
La teorizzazione sistematica si trova nel celebre “Epistemology of the closet”, libro dalla disperata metodicità che però fa luce su un mondo culturale e umano sommerso da secoli dove la “trasgressione” si mette in atto non solo sul piano strettamente sessuale ma prima di tutto su quello emotivo e intellettuale di una sensibilità “ibrida”, di una virilità che rivendica il proprio diritto a non essere obbligatoriamente “maschia”.
Appena rivelata, appena giunta a contatto col mondo esterno, questa cultura straordinaria ha subito il destino di certi affreschi romani che appaiono come per incanto sui muri di antiche ville appena riportate alla luce, che dopo pochi minuti si sbiadiscono e scompaiono per sempre.
Visto che le piace il cinema si legga quel libro che le ho segnalato e poi si riguardi il film “Le Iene”; come è evidente si tratta della storia di due rapporti di amore maschili, uno profondo e tenero fra H. Keitel e T. Roth, l’altro dolorosamente pasoliniano fra Matt Madsen e il figlio del capo.
Ma le scene della finzione teatrale, l’addestramento del poliziotto all’infiltrazione, sono la precisa rappresentazione cinematografica proprio dei postulati del libro della Sedgwick.
Se qualcuno avesse dei dubbi, c’è una scena con T. Roth da solo che prima della rapina deve decidere se mettersi la fede o no…