Sei bravo sul lavoro, sei un padre esemplare adorato dai figli, ami tua moglie, non fai mancare nulla alla tua famiglia né affetto né beni, sei buono, sei giusto,
ti comporti secondo coscienza, rispetti te stesso, il prossimo e non fai male a nessuno. Tutto inutile.
Alla prima debolezza che manifesterai il destino (una donna probabilmente…) ti annienterà minando la tua sicurezza e rubandoti la serenità, il lavoro, la vita. È la parabola amara e misogina di “Locke”, l’ultimo film di Steven Knight che segna la nascita di un nuovo genere: il monologo cinematografico.
In scena ci sono un attore, un’automobile, un cellulare, un’autostrada e le luci della notte. Ed è solo attraverso la combinazione di questi elementi che prende corpo un giallo iperrealista, nel quale la vita pulsa fortissima, incontenibile e amorale. L’uomo che guida la macchina verso l’ospedale – per un miracolo di regia e d’interpretazione – riesce a racchiudere in sé quel mondo enorme e piccolissimo che è l’esistenza sentimentale quotidiana: la famiglia, il lavoro, il tradimento, il sesso, l’amicizia, il senso del dovere, l’amore, il non amore, il calcio, il fantasma del padre, la pace, la guerra, la morte, la rinascita.
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