Oggi parliamo di quel tarlo che sta, piano piano sgretolando l’arte, la società, il sesso, la vita stessa: il meccanicismo psicologico. Prendiamo come spunto “Saving Mr. Banks”, film peraltro riuscito nel suo intento evocativo di riattivare le sinapsi dell’infanzia, per crogiolarsi in una malinconia travestita da felicità. La struttura narrativa dell’opera si basa su un montaggio parallelo tra la vita della scrittrice Pamela Travers da bambina (in particolare il rapporto col padre) e la vita da adulta ripresa durante il contrasto avuto con Walt Disney circa la cessione dei diritti d’autore del romanzo “Mary Poppins”. Tutto è direttamente conseguente: il passato trova preciso, addirittura scientifico, riscontro nel presente. Lo stesso capita a Walt Disney la cui ostinazione, si scopre alla fine, deriva dalle cinghiate che l’amato genitore gli rifilava da piccolo.
È la banalizzazione dei processi mentali ridotti a una mera pratica di causa effetto.
Una sorta di razionalizzazione dell’inconscio (un ossimoro).
Uno “psicanalismo” da talk show, dove la colpa di qualsiasi comportamento la ritrovi nel rapporto col padre o con la madre. E se lo pratichi sotto l’ombrellone per lamentarti del capoufficio o in televisione davanti a un plastico per giustificare un uxoricidio, poco male. Ma al cinema, nell’arte e nella vita equivale ad affossare l’imprevedibilità, ottundere la creatività, soffocare lo spirito libero e uccidere l’amore.
In un mondo dominato dal meccanicismo psicologico Picasso, Fellini e Beckett farebbero i commessi da Ikea.
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