Superando il tedioso mi piace non mi piace (non ti piace la grande bellezza? Esticazzi!) un criterio con cui valutare un film può essere quello delle sensazioni suscitate. Rabbia, affinità, bellezza, emozione, profondità, riso. Ma anche sonno (cosa c’è di più bello, salutare e appagante di addormentarsi dolcemente in una comoda poltrona? ), malessere e irritazione. Sono tutti stati d’animo che solo la maieutica del cinema riesce a tirare fuori.“Lei” per esempio è il classico prodotto urticante e fastidioso, che induce a porgersi la domanda: Perché sono cosi irritato? E qualsiasi film che mette in moto il cervello è di per sé un film riuscito.
Perché dunque? Nella confezione allestita dall’autore Spike Jonze forse c’è già la risposta: plot alla camomilla ma ben congegnato, fotografia esemplare, metafore chiare: l’uomo non può amare che se stesso, o al massimo una proiezione di sé e in un mondo ultrachattologico il suo destino sarà la solitudine. Ecco, nel continuo, un po’ stucchevole, riflettere del personaggio sull’amore e sulla incomunicabilità dei sentimenti manca l’elemento essenziale: la vita. Non si palpita, non c’è passione, non si ride, non si lotta. È tutto dato, tutto molto intelligente, tutto perfettamente laccato ma una storia, una qualsiasi storia (l’uomo che si innamora della macchina a dir la verità è vecchia come il cucco) ha bisogno di sangue, nervi, cuore, cervello e anche se non esiste anima.
E invece il regista sembra masturbarsi sulla perfetta luce degli ambienti, sui colori pastello delle camicie, sul controllo della macchina da presa, sui pantaloni a vita alta del protagonista (doveva lanciare una collezione?) e trasforma quindi l’amore, il motore del mondo, in materia di supporto, inerte.
Si esce dalla sala molto innervositi e quindi soddisfatti della riuscita del film.
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