Il tema della memoria e delle sue declinazioni lega due film molto interessanti forse i più riusciti dell’anno, apparsi sui nostri schermi nell’olimpica estate del 2016. I miei giorni più belli (Trois souvenirs de ma jeunesse) del francese Arnaud Desplechin e Tutti vogliono qualcosa dell’americano Richard Linklater.
Uno è ambientato a Roubaix, nel cuore della provincia operaia francese, l’altro nel campus di Austin in Texas. Entrambi scorrono sul filo delle rimembranze sentimentali di piccole comunità giovanili.
Più intimo il francese più solare l’americano, i due film sembrano rispondere all’esigenza profonda dei registi di riportare alla luce le loro intermittenze del cuore, una comune esigenza dalla quale esce fuori prepotente e inconscia quella sottile differenza del rievocare, che passa tra il vecchio e il nuovo mondo, tra la nostalgia e il rimpianto.
Il film americano, circoscritto a i tre giorni che precedono l’inizio delle
lezioni dell’anno accademico 1980, è scandito da didascalie che segnalano il trascorrere delle ore.
Il film francese sovrappone le dimensioni del tempo in un continuo intreccio tra passato e presente.
Per l’americano non c’è spazio per la malinconia, per l’elaborazione di qualcosa che non c’è più. Il ricordo si cristallizza in se stesso, è un pensiero positivo, poi la vita prende il suo corso e trasforma le cose e gli uomini. Il film chiude sugli studenti che entrano in classe e nessuna didascalia spiegherà che fine hanno fatto i protagonisti e i loro amori.
Per il francese invece il tempo è un concetto elastico. Non puoi scappare, tutto torna, la psiche macina, elabora il passato, non lo sublima. La leggerezza degli amori a 18 anni si trasformerà nel fardello di una vita non realizzata. Il film finisce con una lite per una questione amorosa sospesa tra amici che si rincontrano 30 anni dopo.
Per l’americano il ricordo è una fotografia e il futuro è libero.
Per il francese il presente è vincolato a dei ricordi che diventano gabbia.
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