L’origine du monde è il titolo di un dipinto di Gustave Courbet che nel 1866 fece scandalo: il sesso femminile in primo piano, inno all’eros e alla vita. Ma Daria, la protagonista dello spettacolo scritto e diretto da Lucia Calamaro, è ben lontana dall’opera del realista francese: si sente, piuttosto, come un barattolo dentro una natura morta di Giorgio Morandi. Non una bottiglia – che potrebbe avere un proprio sviluppo e identità – ma un piccolo oggetto anonimo, grigio, inconsistente: definito soltanto dalla luce e dalla polvere. Daria ha estinto gli impulsi erotici, così come ogni senso materno: depressa e apatica, colma la sensazione di vuoto esplorando il frigorifero e annega l’intimità nel ciclo a vuoto di una lavatrice.

La scena di “L’origine del mondo” è un immaginario loft: claustrofobico pur in assenza di pareti, trova negli elettrodomestici, nell’armadio, nella poltrona da psicoanalisi i totem che scandiscono l’esistenza. Il primo atto è notturno e grottesco; in penombra, di fronte al tetro neon del frigo, si relaziona con la figlia che sembra non avere età: piccola ma già vecchia, più saggia e matura della madre. Daria abdica al proprio ruolo ed è la figlia a prendersi cura di lei, trasfigurandosi perfino in analista. Il secondo atto vede l’arrivo vitale e brillante della madre-nonna: uno scossone irridente al vittimismo da “madonna addolorata” di Daria. Gli uomini (padri, mariti, fratelli) esistono ma non si vedono mai: quello di “L’origine del mondo” è un universo tutto al femminile – una femminilità respinta, asettica, surgelata.

Sempre sostenuti da ottime qualità drammaturgiche, interpretative e di regia, si individuano in nuce temi, gesti e stilemi che troveranno forma più compiuta e centrata in altri lavori della Calamaro, come il recente “La vita ferma“: a partire da un rapporto madre/figlia segnato da freddezza, conflittualità e inaspettato rispecchiamento. “L’origine del mondo” è il “ritratto di un interno”; racconta l’interno della casa in cui Daria si rinchiude e racconta l’interno del pensiero: descrive, prendendosi in giro, le ossessioni della mente, il vagare inconcludente che finisce per torcersi su se stesso. Proprio in questo andamento elucubratorio lo spettacolo mostra la sua cifra, ma anche il suo limite; avviluppandosi negli psicologismi, il terzo atto si fa stanco, debole ed estenuato: non necessario quanto i primi due.

AutoreLucia Calamaro
RegiaLucia Calamaro
LuciGianni Staropoli
Aiuto regiaFrancesca Blancato
InterpretiDaria Deflorian, Federica Santoro, Daniela Piperno
Durata180'
ProduzioneLucia Calamaro, 369gradi, PAV Diagonale artistica
Anno2012
Applausi del pubblicoRipetuti
In scenadal 16 al 18 maggio al Teatro India - Lungotevere Vittorio Gassman - Roma