Una puleggia, un bullone, una vite, una cinta di trasmissione, una pompa. In definitiva un punto perso in una fiumana. È la condizione di Lulù Massa, protagonista de “La classe operaia va in paradiso” liberamente tratto dal film del 1971 di Elio Petri (sceneggiatura Elio Petri e Ugo Pirro) di Paolo Di Paolo con la regia di Claudio Longhi prodotto da Emilia Romagna Teatro e andato in scena al Teatro Argentina di Roma. Oggi e ieri messi uno accanto all’altro in questa riuscita trasposizione “arricchita”. Oggi e ieri affiancati per parlare di lavoro, di dignità e, dunque, di vita. Oggi e ieri che si alternano in un andirivieni che porta dentro e fuori il testo e che accompagnano lo spettatore in una storia che parte da ieri ma che oggi non risente degli anni trascorsi.
La storia è quella di Lulù magistralmente portata in scena da Lino Guanciale che sa dare matura e autonoma profondità al personaggio; operazione non facile se si pensa all’interpretazione che, al cinema, fu del grande Gian Maria Volonté. Lulù è un operaio di fabbrica, per lui come per i colleghi “la luce del giorno non splende” mai perché entrano in fabbrica al mattino presto, prima che il sole sorga, per uscire la sera quando ormai è buio. L’esistenza sarà però segnata da un incidente sul lavoro: perde un dito e rimette in discussione ciò che era determinante nella sua vita. Dopo quindici anni passati in assoluta alienazione Massa decide di redimersi, abbracciando gli estremismi del movimento operaio e schierandosi contro il lavoro a cottimo, scelta che lo porta al licenziamento, all’abbandono della compagna e a sfiorare quel sottile confine che separa sanità mentale e follia.
Longhi non racconta solo la vicenda ma intreccia tre piani narrativi ovvero il processo creativo, il dibattito ideologico e antropologico generato attorno al film e i punti di vista e le idee di Elio Petri e Ugo Pirro che ne firmarono la sceneggiatura. Ne vengono fuori due ore e mezzo di spettacolo composito e ritmato, ricco e arricchente e, come già in altri lavori di Longhi, corale. Forse la cifra migliore e più difficile da raggiungere soprattutto quando nel cast spicca un nome popolare. Qui invece la compagnia tutta si muove seguendo un ingranaggio perfetto in un equilibrio che è, forse, la vera forza de “La classe operaia va in paradiso”.
Il tutto su una scena (firmata da Guia Buzzi) che ha il cuore in una sorta di catena di montaggio che trasporta di volta in volta personaggi, arredi, macchine. Sul velatino, invece, si alternano scene tratte dal film e spezzoni di pubblicità dell’epoca. Scena che si avvale anche della platea dove gli attori sfociano ripetutamente, permettendo al pubblico di entrare nella storia abbattendo la quarta parete. Del resto la tematica riguarda, chi più chi meno, un po’ tutti. E tanti gli spunti di riflessione e i “link” che da ieri portano a oggi, inseriti nelle parole degli operai, così come nei dibattiti post proiezione del film o ancora messi in musica e parole da un moderno menestrello (il bravo Simone Tangolo) come il gelido “Precari siamo in tanti siamo quasi tutti quanti”.
Ma se nel 1971 si sognava il lavoro a tempo indeterminato, oggi si spera “solo” in un lavoro. Ciò che resta uguale è la democrazia del sogno, che, anche oggi, permette di “occupare il paradiso”. Non lo stesso. Forse, un altro.
Titolo | La classe operaia va in paradiso |
Autore | di Paolo Di Paolo liberamente tratto dal film di Elio Petri (sceneggiatura Elio Petri e Ugo Pirro) |
Regia | Claudio Longhi |
Musiche | Filippo Zattini |
Scene | Guia Buzzi |
Costumi | Gianluca Sbicca |
Luci | Vincenzo Bonaffini |
Aiuto regia | Giacomo Pedini |
Interpreti | con Donatella Allegro, Nicola Bortolotti, Michele Dell'Utri, Simone Francia, Lino Guanciale, Diana Manea, Eugenio Papalia, Franca Penone, Simone Tangolo, Filippo Zattini |
Produzione | Emilia Romagna Teatro Fondazione |
Ideazione e regia teaser video | Riccardo Frati |
Applausi del pubblico | A scena aperta |
In scena | Al Teatro Argentina di Roma fino al 27 maggio 2018 |
Nessun commento