Variazioni di grigio. Grigi sono i gradoni che ricordano un’aula universitaria, grigio scuro è il colore dell’ardesia nelle lavagne su cui sono accatastate formule su formule. Diverse sfumature di grigio sono negli abiti da prima metà del Novecento e grigie sono le temibili volute del fungo atomico che esplode nelle immagini di repertorio. Grigio è anche l’andamento di questa “Copenaghen“, scritta da Michael Frayn nel 1998 e diretta da Mauro Avogadro.
Il fisico Niels Bohr, la moglie Margrethe e l’ex allievo Werner Heisenberg, ormai «morti e sepolti», rievocano la storia di un incontro sul quale gli storici tuttora si interrogano. Nel 1941 il tedesco Heisenberg andò a trovare il maestro Bohr, mezzo ebreo, nella Danimarca occupata dai nazisti: quale motivazione lo spinse? Che cosa si dissero i due uomini? “Copenhaghen” allestisce un flashback dell’incertezza che sovrappone presente e passato, prendendo a modello il principio di complementarietà enunciato da Bohr e il principio d’indeterminazione formulato da Heisenberg. Ci sono coppie di grandezze – come la posizione di una particella subatomica e la sua velocità – di cui non possiamo conoscere l’esatto valore contemporaneamente: più si definisce una delle due grandezze, più si rende indeterminata l’altra. Non esiste un’unica verità assoluta, ma tante verità che cambiano a seconda di chi e come le osserva.
Elevati a metafora, i principi della fisica quantistica finiscono per costruire una trappola in cui la pièce stessa resta ingabbiata: senza certezze a cui aggrapparsi, le differenti versioni della vicenda si confondono in una memoria nebulosa, l’incipit “giallo” si sfalda e lo spettacolo procede senza ritmo o suspense; finisce per avvitarsi su se stesso attorno al nucleo centrale: il dilemma etico dello scienziato lacerato fra l’amor patrio e il giudizio politico, l’orgogliosa passione per la scoperta e il senso di colpa per le possibili conseguenze delle proprie ricerche.
Nonostante il valore degli interpreti – gli stessi che portarono in scena “Copenaghen” nel 1999 e poi a più riprese negli anni a seguire – i protagonisti si contrappongono in un dialogo accademico, astratto ed eccessivamente statico: non sembrano uomini in carne ed ossa, quanto i portavoce dei princìpi che sostengono. La figura femminile, la cui presenza offre inizialmente il pretesto per costringere i due a tradurre la propria conversazione in termini più comprensibili, sembra in altri momenti diventare, con una certa incoerenza drammaturgica, un’improvvisa esperta di fisica teorica. Senza entrare nel merito delle questioni scientifiche per poter conquistare gli appassionati di fisica, “Copenaghen” non è neppure sufficientemente accattivante per affascinare i neofiti; lo spettacolo rimane imprigionato in una zona grigia in cui non può più lasciare il segno.
Titolo | Copenaghen |
Autore | Michael Frayn |
Adattamento | traduzione Filippo Ottoni e Maria Teresa Petruzzi |
Regia | Mauro Avogadro |
Interpreti | Umberto Orsini, Massimo Popolizio e con Giuliana Lojodice |
Durata | 110' |
Produzione | Compagnia Umberto Orsini, Teatro di Roma - Teatro Nazionale |
Coproduzione | CSS Teatro Stabile di Innovazione del Friuli Venezia Giulia |
Applausi del pubblico | Ripetuti |
In scena | dal 24 ottobre al 12 novembre al Teatro Argentina - Largo di Torre Argentina - Roma |
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