The Suit


Anno
2012

Genere
tragedia

In scena
in turnè

Autore
Can Themba, Mothobi Mutloatse, Barney Simon
Regia
Peter Brook, Marie-Hélène Estienne, Franck Krawczyk
Scene
Oria Puppo
Costumi
Oria Puppo
Musica
Peter Brook, Marie-Hélène Estienne, Franck Krawczyk
Interpreti
Nonhlanhla Kheswa, Jared McNeill, William Nadylam, Arthur Astier (chitarra), Raphaël Chambouvet, (piano), David Dupuis (tromba)

 

«Stop self-pity. Forget and forgive» («Smettila di commiserarti. Dimentica e perdona»). È il consiglio di un amico ad un altro tradito dalla moglie, dramma umano della coppia di protagonisti di “The Suit” e dramma politico di un intero Paese, il Sud Africa, ai tempi dell’apartheid.

Volendo giocare con il linguaggio «for» (per) è la medesima radice di «get» (ricevere) e «give» (donare). Per-ricevere (amore) occorre per-donare? Quasi un suggerimento al cuore sacro di ogni individuo in cui esiste comunque la possibilità di trasformare quello che si è ricevuto, odio o tradimento che sia, in un dono d’amore. Philemon (William Nadylam) e Tilly (Nonhlanhla Kheswa) sono una giovane coppia felicemente sposata nel Sud Africa dell’apartheid. Lui è un marito amorevole e attento, fino a quando l’idillio non è spezzato dalla scoperta del tradimento di lei, in un giorno qualunque, di una mattina come tante altre, nella camera da letto di casa, in cui trova un uomo in mutande che scappa lasciando il suo abito, The Suit.

L’oggetto prende vita, sarà il “benvenuto” ospite nella casa degli sposi, oggetto-feticcio che diventa rappresentazione dell’eterno dilemma che si cela dietro ogni tradimento amoroso: la libertà di un individuo e il rispetto per l’altro. La vendetta di Philemon costringe Tilly a trattare l’abito come un essere vivente: lo lava, lo veste, lo mette a dormire, mangia al tavolo con la coppia.

Nulla sarà come prima, la gentilezza e le attenzioni saranno assenze distratte, saluti frettolosi, la festa gioiosa un convito macabro con lo/il “s-gradito ospite”, la fiducia smarrita per sempre. Il per-dono di Philemon arriva troppo tardi, mentre Tilly lo aspetta con le mani aperte sul grembo…

E’ bello pensare che questa opera piena di grazia sia ambientata in un Paese in cui Nelson Mandela ha avviato un processo di riconciliazione tra due razze in conflitto e che venga rappresentata proprio oggi che anche solo un confronto umano, senza pre-giudizi, è così difficile.

La grazia e l’ironia pervadono ogni singolo tocco della rappresentazione, dalla scenografia alla interpretazione degli attori; la musica dal vivo è armoniosamente intonata alla recitazione; Tilly ha gesti morbidi e la voce di un usignolo inconsapevole del male che arreca; l’amico di Philemon (Jared McNeill) sussurra le note musicali con la stessa armonia con cui i registi Brook-Estienne-Krawczyk dispongono lo spazio, gli attori, le parole. Divertente l’interprete del vecchietto rimbambito o del sacerdote che fa la predica e i musicisti (Arthur Astier, Raphaël Chambouvet, David Dupuis) con i cappelli che mimano le chiacchiere femminili all’ora del tè: in pochi gesti, un universo umano. Teatro come vita all’osso, estrema sintesi. Un’energia sottile, un’arte invisibile, una “frequenza quasi impercettibile”, sono lo stile di Peter Brook, fatto di ricerca, profondità, vita, per una grazie ricevuta («for-get») che dona al suo pubblico («for-give»). [deborah ferrucci]