Sette
Autore: da un’idea di Nancy Brilli e Claudio Pallottini, Barbara Alberti, Iaia Fiastri, Francesco Freyrie, Piergiorgio Paterlini, Carla Signoris, Franca Valeri, Paolo Villaggio
Regia: Marco Mattolini
Scene: Francesco Fassone Costumi: Patrizia Pontesilli
Luci: Maurizio Fabretti, Pietro Sperduti Coreografie: Michela Crescentini
Produzione: Gianmario Longoni
Interpreti: Nancy Brilly, Dosto&Yevski e la Musicomix Orchestra
Anno di produzione: 2010 Genere: commedia musicale
In scena: in turnè

Sette” sono i vizi capitali (lussuria, accidia, gola, invidia, superbia, ira, avarizia) espressi dalle altrettante donne interpretate da Nancy Brilly. L’entrata in scena dell’attrice è un po’ secca, confusa, come la scenografia troppo piena di oggetti. Ma poi arriva la vera star dello spettacolo: l’orchestra guidata da Dosto&Yevski, la Musicomix Orchestra, ironica, attenta ai monologhi dell’attrice, vero momento teatrale dello spettacolo, di presunta origine balcanica, strampalata ma efficace. Come l’orchestra del film “Il concerto”: autentica.

Nancy Brilly canta, balla, recita, ma non convince. A prescindere da una evidente indisposizione che la rende afona, ha comunque tempi e voce da attrice di cinema e di televisione. I gesti come la voce non tengono in considerazione lo spazio scenico. Si affida alla simpatia e carisma, soprattutto in due personaggi in cui riesce ad immedesimarsi: la donna borghese accidiosa e indolente, ciondolante, cui pesa solo il pensiero di un’uscita serale, figuriamoci un viaggio e la donna avara, perennemente a caccia di un invito a cena di qualche spasimante. Brilli fatica a trovare una sua verità, come se i personaggi non le appartenessero. Fatica anche a tenere la voce fino alla fine delle canzoni che interpreta. Ci vorrebbe meno Brilli personaggio e più attrice.

A volte lo spettacolo risente della pluralità degli autori del testo, personaggi, stili, modi diversi di vedere il mondo femminile. Non c’è un filo conduttore, non c’è un’idea forte che ispiri la trama. Sono frammenti di donne. C’è dell’ironia, ma non affonda; c’è malinconia e tristezza a volte, come nella bambina che mangia per dimenticare una madre assente, ma sembra quasi casuale, come se l’autore abbia pudore o vergogna di aprire la porta di quel dolore, per timore di annoiare lo spettatore. L’ironia non è graffiante, non scava nelle motivazioni dei personaggi: si privilegia un livello superficiale e banale che non lascia un’impronta nel pubblico, rischiando l’effetto anestetizzante, come le pillole che ingurgita in continuazione il personaggio della donna manager, per resistere allo stress delle troppe cose da fare. [deborah ferrucci]