Al
Teatro Valle fino al 27 gennaio è in scena Molly
Sweeney: una rielaborazione di Brian Friel di
un saggio di Oliver Sacks (To see and not to see) che,
attraverso la narrazione di un caso clinico, investiga
le problematiche etiche e le conseguenze della malattia
e della sua cura.
Molly Sweeney è una quarantenne priva di vista
dall’età di dieci mesi, una donna autosufficiente
che lavora come fisioterapista vivendo la propria cecità
senza alcuna forma di autocommiserazione;
sposa l’autodidatta ottimista Frank Sweeney e
si lascia convincere a sottoporsi ad un intervento chirurgico
per riacquistare la vista. C’è molta eccitazione
per questo avvenimento: Frank è certo che sarà
un successo e la sua ennesima vittoria, come già
accaduto per lo studio sui salmoni, mentre il Dr. Rice
spera di riscattare la sua carriera e bearsi degli incredibili
risultati ottenuti nel modesto ospedale della provinciale
Ballybeg.
Così è: Molly riacquista, parzialmente,
la vista ma si apre per lei una voragine di disperazione.
Trascorsa l’iniziale euforia – splendido
il simbolismo del soprabito rosso - si ritrova in un
mondo che non riconosce e si rifugia gradualmente in
una sorta di autismo auto indotto rinchiudendosi, sola,
abbandonata dal marito e dal medico curante, in manicomio.
La regia, curata da Andrea De Rosa, è tutta incentrata
sul rapporto tra visione e conoscenza trasportando lo
spettatore in una dimensione percettiva; durante il
primo atto il teatro è completamente al buio,
per rendere palpabile il mondo di Molly che tutto conosce
attraverso il tatto e si aggira nell’oscurità
con grande sicurezza.
Il pubblico può così comprendere sensorialmente
la dimensione altra della protagonista: il profumo e
lo stelo dei fiori, i passi cadenzati nel giardino di
famiglia, suo terreno di apprendimento, le nostalgiche
ballate irlandesi, gli scrosci della pioggia e la musica
della festa improvvisata la sera prima dell’operazione.
La musica è una componente fondamentale, uno
strumento di conoscenza: permette di richiamare alla
mente le emozioni durante la prima parte ma è
completamente assente nella seconda, quella in cui tutto
è visibile. I dodici punti di diffusione progettati
da Hubert Westkemper avvolgono il pubblico in un viaggio
straniante e amplificano la dicotomia tra i due momenti:
conoscenza sensoriale e razionalità.
Anche i personaggi, che raccontano le proprie esperienze
in monologhi che mai si intrecciano, pongono l’accento
sulla difficoltà di relazione esterna e richiamano
l’attenzione sulla realtà irlandese dell’epoca,
il dramma sociale della donna, forte ma malleabile che
acconsente all’operazione per assecondare i desideri
altrui, più che per sua reale convinzione.
Il caso clinico riferito da Sacks riguarda un paziente
di sesso maschile, nel testo di Friel abbiamo invece
per protagonista una donna: Molly, non semplicemente
Molly Sweney bensì Molly che riecheggia nei suoi
monologhi Molly Bloom, le cui parole chiudono l’Ulisse
di James Joyce [paola
di felice] |
|