L'ira
cantami, dea, l'ira di Logan, detto Wolverine, l'ira funesta
che ha inflitto tanti dolori alla segretissima e corrotta
agenzia americana per gli esperimenti sui mutanti, l'ira che
a tanti mutanti cazzutissimi ha fatto un culo così.
Si compiva così il piano di Xavier dal momento in cui
la contesa divise fra loro Sabretooth, capo di malvagi mercenari
mutanti, e l'adiamantino Wolverine. Ma anche no, dea, stai
zitta per stavolta, dai.
Nella Hollywood classica, ma è norma talvolta in vigore
anche oggi, è noto come a storie realistiche e tragiche
si provvedesse ad aggiungere un forzato lieto fine per non
turbare la visione dello spettatore americano medio. Autori
come Capra ci hanno costruito uno stile attorno a inverosimili
finali, tanto che “Hollywood Ending” è
diventato il termine più diffuso per indicarli.
Nel prequel di blockbuster di successo esiste il problema
opposto, visto che si presume che il loro finale coincida
con gli eventi tragici che hanno aperto e che trovano l'eventuale
soluzione nei sequel che lo hanno già preceduto.
Qui, gli sceneggiatori David Benioff, Skip Woods sembrano
incapaci di arrivare gradualmente alla prevista tragedia di
un Wolverine che ritroveremo
privo di affetti e memoria all'inizio del primo
X Men tracciando quindi un percorso narrativo fino
ad uno sdolcinatissimo lieto fine (con tanto di amanti riuniti
che camminano verso un tramonto pastello) salvo poi ribaltarlo
negli ultimi cinque minuti complice una letale pistola che
uccide lei e oblia lui. L'inquadratura che fa da giuntura
tra questi due momenti è destinata ad entrare nella
storia del Kitsch: agli “amanti sotto cielo pastello”
già citati si aggiunge, da bordo inquadratura, una
mano armata stile videogioco in soggettiva. Siamo davvero
all'anti-Capra. [davide
luppi]