Se il
corpo del protagonista è un’Ombra, gli sguardi
degli altri personaggi e della macchina da presa non sempre
coincidono e tantomeno producono senso, tanto più che
da Hegel prima e dal crollo del muro e delle torri, la storia
come processo non esiste più qui nella terra ferma,
mentre nell’isola l’autobiografia dell’ex
premier come autoassoluzione è già scritta e
lo inchioda al suo destino, rovesciandosi in una condanna
senza appello. È il primato della letteratura e per
esteso del cinema a due dimensioni ma che in realtà
si dilata a tre, perché il linguaggio analogico è
già digitale fin dalla sua fondazione, senza occhialetti
e senza bisogno di sovrastrutture ulteriori che eliminino
la distanza tra lo schermo e la poltrona. È la rivincita
dell’inquadratura sulla finzione del potere che si nasconde
dietro le scuse della lotta al terrorismo per continuare a
perpetrare i suoi crimini di guerra, per ridurre le libertà
civili e per cancellare i diritti dell’uomo. Dopo le
esperienze dei film in costume, Polanski torna ad una storia
di stringente attualità adattando il bestseller di
Robert Harris, The ghostwriter.
Uno scrittore senza nome e quindi privo di identità
viene assunto dalla più importante casa editrice angloamericana
per pubblicare le memorie dell’ex presidente del consiglio
inglese proprio nel momento in cui il ministro degli esteri
appena dimesso lo denuncia per aver appoggiato i famigerati
voli della CIA, che in barba al diritto internazionale prelevavano
e di fatto rapivano cittadini musulmani per arrestarli e torturarli
nelle prigioni di Guantanamo.
Lo scrittore viene chiamato per sostituire il predecessore
scomparso misteriosamente in riva al mare che aveva scoperto
qualcosa che non doveva scoprire, le prove di un complotto
che doveva rimanere segreto. Ma lo scrittore interpretato
da un Ewan McGregor che per la prima volta si misura con un
maestro del cinema, cerca in tutti i modi di non farsi coinvolgere
e di dedicarsi a ciò che conosce di più, la
forma letteraria. Appena riceve il manoscritto, un tomo di
quasi mille pagine, si mette le mani tra i capelli. E non
per il suo contenuto, ma per la lunghezza e per lo stile.
È robaccia di quart’ordine, auto celebrativa,
un ritratto melenso privo di ogni interesse per un lettore.
Rinchiuso in una villa ossessivamente al centro di infinite
finestre piazzate strategicamente in modo da impedire la divisione
tra uno spazio interno da quello esterno, annullando i confini,
il lavoro stesso finisce per essere esposto all’occhio
insensibile delle telecamere della CNN che volteggiano minacciose
a bordo degli elicotteri in cielo. Lo scrittore si ritrova
così sospeso tra due dimensioni che si moltiplicano
all’infinito, come al centro di due specchi che rimandano
una l’immagine dell’altro. Da una parte la fedeltà
alla causa letteraria, dall’altra scoprire l’assassino
di chi lo ha preceduto fallendo nell’impresa e stanare
i misfatti del potere. Quando comprenderà che risolvere
un enigma significa risolvere anche l’altro, troverà
la salvezza.
C’è completa aderenza tra il punto di vista del
protagonista smarrito nelle scatole cinesi dove ogni cosa
invece che avere un suo posto, ha un suo doppio e quello dello
spettatore. Travolti da un enigma invisibile all’altro,
rimaniamo incastrati a contemplare l’ultimo capolavoro
di Polanski. Un capolavoro che non esige nessun tipo di lettura,
nessun lavoro di scavo, perché tutto è in superficie,
tutto agisce e si dipana davanti ai nostri occhi. La risoluzione
dell’enigma non è in una qualche interpretazione
aberrante, non c’è inganno, ma tutto è
scritto nell’inizio, anzi negli inizi come scopriremo
con un meraviglioso colpo di scena finale. Ma anche qui cadiamo
nell’errore, perché la pellicola procede senza
colpi di scena, compatta, inesauribile, come un perfetto ed
inquietante meccanismo ad orologeria alla Hitchcock grazie
ad un’intelaiatura come raramente si vedevano al cinema
da molti anni a questa parte. E troviamo echi con le altre
opere più psicotiche degli anni sessanta e settanta,
da Cul de Sac a Repulsion,
da Che? a L’inquilino
del terzo piano. Rispetto a quelle tra l’altro
Polanski decide di lavorare meno sugli effetti a sorpresa
e di più nell’identità tra la forma del
giallo e quella della denuncia politica, evitando così
il rischio del virtuosismo che avrebbe potuto levare forza
morale al messaggio che voleva trasmettere.
[matteo cafiero]