Le
cose importanti che ho imparato sono due.
La prima è che per essere forti bisogna mettersi in
condizioni di esserlo.
La seconda è che la parte più difficile di ogni
impresa è fare il primo passo, prendere la prima decisione.
Robyn Davidson
Siamo nel 1977. L’australiana
Robyn Davidson (Mia Wasikowska, già vista in “Jane
Eyre” e “Stoker”)
ha 25 anni e vuole vivere lontano da tutti, in completa solitudine.
Decide quindi di partire da Alice Springs per raggiungere
l’Oceano Indiano. Al suo fianco sceglie di avere solo
quattro dromedari Bubs, Dookie, Zeleika e il piccolo Golia,
partorito da Zuleika (acquistati con il lavoro e il sudore
da un allevatore di cammelli afghano) e l’inseparabile
cane Diggity.
Prima di intraprendere il viaggio della vita, però,
deve trovare i soldi necessari per finanziare la traversata
del deserto. Riesce ad avere la somma necessaria accettando
la presenza occasionale di Rick Smolan (Adam Driver), fotografo
del National Geografic che la seguirà, realizzando
un reportage sulla sua impresa. Il servizio viene poi pubblicato
sulla rivista, riscuotendo un successo imprevisto, con testi
scritti dalla stessa Robyn.
La pellicola diretta da John Curran (“Il
velo dipinto”, “I
giochi dei grandi”) è tratta
da una storia vera: la giovane australiana è davvero
riuscita ad attraversare 2700 miglia di deserto. Il film,
per essere il più possibile fedele alla vicenda, è
stato girato nei deserti dei due stati australiani dell’Australia
del sud e del Territorio del Nord, in ottobre e novembre,
agli inizi della stagione calda. Riprese complicate che hanno
permesso di riportare sulla pellicola il più possibile
le suggestioni che ha vissuto la Davidson. A Curran incuriosiva
realizzare «una storia in cui il paesaggio era protagonista.
Non mi interessava fare un film che avrei potuto girare ovunque,
in un qualsiasi stabilimento cinematografico. Inoltre, avevo
voglia di girare su pellicola (pellicola 35mm anamorfica,
ndr), volevo un film che meritasse la fatica di girare su
pellicola».
Un “Into the Wild - Nelle
terre selvagge” al femminile dove dolore,
fatica, solitudine e sofferenza si combiniamo indissolubilmente,
con la consapevolezza del lieto fine.
[valentina venturi]