L’assassino
torna sempre sul luogo del delitto. E’ quanto accade al regista
giapponese Hideo Nakata, padre della saga The
Ring ed autore dei primi due capitoli giapponesi (Ringu,
Ringu 2).
Dopo il successo, inspiegabile per chi scrive del primo capitolo per
la regia dell’insipido Gore Verbinski, il sequel era nell’aria
e puntualmente giunge a noi. Se The Ring
era l’effettivo remake di Ringu,
questo secondo capitolo si stacca in maniera prepotente dall'omonimo
giapponese, diventando un oggetto a se stante, indipendente. Anche
il legame con il primo film, la cassetta maledetta la cui visione
provocava la morte dello spettatore dopo una settimana, è flebile
e presente nel solo efficacissimo prologo. Per il resto The
Ring 2 riprende i personaggi sopravvissuti del primo film,
la giornalista Rachel Keller (Naomi Watts) ed il figlio Aidan (David
Dorfman) che trasferiti ad Astoria (Oregon) tentano di dimenticare
il passato e ricostruirsi una vita. Facile immaginare che così
non sarà. Infatti lo spirito vendicativo di Samara, abbandonata
la vhs maledetta si trasferirà nel corpo del giovane Aidan
costringendo la nostra Naomi a combattere contro la propria famiglia.
Il finale prevedibile e protratto oltremisura è il degno risultato
di un film che pesca a piene mani nella tradizione dei film di “possessione”
da L’Esorcista a Nightmare
Nuovo Incubo, in cui il mostro si impadronisce dei giovani
corpi dei più deboli per affermare il loro diritto negato alla
vita e sopravvivenza.
L’apporto alla regia del regista giapponese assicura una discreta
costruzione di suspence ed un paio di colpi da “salti sulla
sedia” ben assestati grazie soprattutto ad una tensione costruita
lungo l’arco dell’intero film attraverso una fotografia
venata di toni plumbei e la presenza di elementi ricorrenti nel cinema
di Nakata: ragazze madri, orfani, spiriti vendicativi e l’acqua
(Dark Water) che è simbolo di
vita e morte. L’acqua è l’elemento di raccordo
tra mondo dei vivi e quello dei morti, è il segnale fisico
della presenza dello spirito di Samara, è fonte di vita e nello
stesso tempo rappresenta la principale causa di morte; è la
principale fonte del terrore che scorre visivamente tra i fotogrammi
della pellicola. Pregevole dal punto di vista visivo, il film purtroppo
fa “acqua” da quello narrativo con digressioni che rendono
difficile e complessa la comprensione della storia, personaggi secondari
superficiali e prettamente funzionali all’azione (se in alcuni
casi è un pregio in altri, come in questo, è sintomo
di presunta svogliatezza e superficialità di scrittura) con
un finale che fatica a chiudersi in maniera convincente e definitivo.
Aspettiamoci il terzo inevitabile capitolo. [fabio
melandri]