Nell’anno
1871, una misteriosa nebbia cala sul mare, mentre quattro
uomini commettono un abominevole crimine. Un veliero insieme
al suo equipaggio viene saccheggiato e dato alle fiamme. Il
fatto celato da una fittissima nebbia viene dimenticato e
sepolto in fondo al mare, sino al giorno in cui incautamente
qualcosa sveglierà gli incubi di un passato che ora
esige la sua vendetta di sangue.
Una vecchia borsa lacerata libera oggetti molto antichi risalenti
a quei tragici eventi di fine Ottocento; una spazzola, un
antico orologio da taschino, un carillon d’oro, connessioni
tra passato e presente, mondo dei vivi e mondo dei morti che
innescano l’inizio della fine.
Più che remake dovremo parlare di rivisitazione dell’omonima
pellicola diretta da John Carpenter nel 1980, un restyling
estetico e narrativo per adattarlo al gusto degli adolescenti
contemporanei.
Se l’opera di Carpenter era costruita come uno di quelle
vecchie storie dell’orrore raccontate ai ragazzi prima
di farli addormentare durante notti buie e tempestose, The
Fog targato Rupert Wainwright (Stigmate)
è un patchwork costruito su un accumulo di topoi e
luoghi comuni del genere godibili per almeno 30 minuti, per
poi ripiegarsi su se stesso in un anonimo e a tratti confusionario
svolgimento.
Peccato, perché almeno un paio di scene sono assolutamente
godibili e di sicuro effetto scioccante (vedi l’attacco
della nebbia all’imbarcazione Sea Grass) ma nel proseguo
della narrazione evidenti buchi di sceneggiatura e digressioni
troppo prolungate allentano la tensione e sviliscono quel
senso di orrore accennato e non esibito che di tanto in tanto
aleggiava in ambienti e personaggi.
Purtroppo è ancora difficile far capire ai produttori
che l’horror è un genere difficile in cui muoversi
e non tutti i registi hanno nelle loro corde il senso del
ritmo, la costruzione della suspence, la visionarietà
della messa in scena, che un buon horror richiede. Troppo
spesso vengono ingaggiati registi tuttofare che avvalendosi
di trucchi sonori ridondanti, effetti speciali digitali, e
make-up più o meno elaborati, mettono in scena un susseguirsi
di morti più o meno creative considerando sussidiari
gli elementi fondanti del genere prima elencati. Rupert Wainwright
fa il suo per quanto il talento gli consenta, ma il ricordo
dell’originale offusca e svilisce il suo lavoro.
[fabio melandri]