Il
rumore di qualcuno che cerca di non fare rumore. L’ombra
di qualcuno che è assente fisicamente ma presente nei
cuori e nelle menti sconvolte da un dolore indicibile e innaturale
come quello generato dalla perdita di un figlio.
Ed è questo il dolore che corrode le apparenti solide
basi del matrimonio tra il narratore di storie per bambini Ted
Cole (Jeff Bridges) e la sua bella moglie Marion (Kim Basinger)
nell’ultima estate passata insieme nell’East Hampton
- New York. Un dolore per la perdita di un figlio, anzi due,
mitigato dalla presenza della piccola Ruth (Elle Fanning) che
passa le giornate a rimirar le fotografie dei due fratelli scomparsi
che decorano in ogni dove le mura di casa.
Una inusuale storia di fantasmi, dove le entità che aleggiano
i meandri della casa della famiglia Cole come le menti dei due
genitori sono i sensi di colpa irrisolti e l’epifania
di un dolore sottile, continuativo, immutevole, inespresso se
non attraverso sottointesi e non detti. E se Ted cerca di superare
il trauma attraverso la scrittura, l’amore-ossessione
per la piccola Ruth, la moglie Marion trova conforto, comprensione
e complicità nel giovane apprendista scrittore Eddie
O’Hare (Jon Foster), surrogato affettivo dei figli scomparsi
e ultima ancora di salvezza per un matrimonio depauperato nella
sua ragione d’essere.
Tratto dal best seller di John Irving ‘A Window for One
Year’, The Door in the Floor
è un dramma sull’epifania del dolore, un dolore
chiuso in quella stanza segreta a cui si accede attraverso la
porta nel pavimento ed in cui si rifugia e sprofonda il protagonista
alla conclusione del film. Una stanza in cui racchiudere e tenere
segregati i mostri delle nostre coscienze come le inquietudini
dei nostri pensieri, sino a quando quella porta non si spalanca
per invadere le nostre vite.
Un solido e convincente dramma familiare sul tema della perdita,
che si avvale di due eccellenti interpreti come Jeff Bridges
che dipinge il suo scrittore radical-chic con le tinte estreme
e surreali del Lebowsky di coheniana memoria e di una Kim Basinger
che gioca su una recitazione fatta di sottrazioni emotive e
sottotoni, dimostrando una maturità espressiva inaspettata
rispetto ai suoi esordi. Un film che contro le premesse risulta
lieve nella narrazione a discapito della drammaticità
dei temi trattati. Una lievità che si deve all’ottimo
narratore Tod Williams, qui nella duplice veste di sceneggiatore
e regista, autore dell’indipendente The
Adventures of Sebastian Coe e prossimo adattatore del
romanzo di Ernest Hemingway “To Have and Have not”.
Tod Williams sceglie di evitare accuratamente tutti gli stereotipi
del dramma familiare, disinnescando emotivamente ogni scena
madre acchiappa-lacrima, optando per uno stile piano e lineare
che metta in risalto una sceneggiatura equilibratissima e piena
di spunti narrativi, con un’affezione ad ogni personaggio,
seppur secondario e di contorno.
[fabio melandri]
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