Due
donne, un’isolana e una straniera: l’una sconvolge
la vita dell’altra. Eppure hanno uno stesso sogno, un
futuro diverso per i loro figli, la loro Terraferma.
Terraferma è
l’approdo a cui mira chi naviga, ma è anche un’isola
saldamente ancorata a tradizioni ferme nel tempo.
È con l’immobilità
di questo tempo che la famiglia Pucillo deve confrontarsi.
Ernesto ha 70 anni, vorrebbe fermare il tempo e non vorrebbe
rottamare il suo peschereccio.
Suo nipote Filippo ne ha 20, ha perso suo padre in mare ed è
sospeso tra il tempo di suo nonno Ernesto e il tempo di suo
zio Nino, che ha smesso di pescare pesci per catturare turisti.
Sua madre Giulietta, giovane vedova, sente che il tempo immutabile
di quest’isola li ha resi tutti stranieri e che non potrà
mai esserci un futuro né per lei, né per suo figlio
Filippo.
Per vivere bisogna trovare il coraggio di andare.
Un giorno il mare sospinge nelle loro vite altri viaggiatori,
tra cui Sara e suo figlio. Ernesto li accoglie: è l’antica
legge del mare. Ma la nuova legge dell’uomo non lo permette
e la vita della famiglia Pucillo è destinata ad essere
sconvolta e a dover scegliere una nuova rotta.
NOTE DI REGIA
Tornare sull’isola di Respiro nell’estate del
2009…
Ho trovato un luogo molto diverso da come lo ricordavo durante
le riprese di Respiro… il mio scoglio sperduto in mezzo
al mare è adesso terra di frontiera. Relitti di barche
mezze affondate, in attesa di essere cancellate dal mare,
motovedette con cannoni e mitragliatrici, confusione e disperazione.
Rimango sull’isola ad aspettare…
Dopo 21 giorni alla deriva, approda a Lampedusa un barcone
carico di più di settanta persone. Sepolte dai cadaveri
dei compagni di viaggio, soltanto cinque sono sopravvissute.
Tra questi c’è un’unica donna: Timnit T.
Vado a cercarla. La trovo sorridente, dice di essere nata
una seconda volta.
Sono anni ormai che osservo le immagini di questi barconi
che approdano sulle nostre coste, che ascolto i racconti dei
sopravvissuti, di coloro che sono riusciti a “rimanere
a galla”.
La stampa parla di “esodo”, “tsunami umano”,
“clandestinità”, “immigrazione”.
Guardando Timnit mi sembrano parole vuote. Lei non porta quei
nomi. Non corrisponde a quelle parole. Timnit ha lo sguardo
di chi ha rischiato la vita per cambiare la sua storia, ha
attraversato il mare, un’altra odissea, un altro viaggio
verso l’evoluzione. Finché ci sarà vita
sulla terra gli uomini partiranno per migliorare loro stessi.
Il movimento è azione e l’azione è conoscenza.
Come si può negare ad un uomo il diritto di andare,
di cercare, di conoscere e quindi di evolversi?
Come raccontare una storia
ed uscire da parole come “clandestino” o “
emigrato” o “extracomunitario”? Una
mattina mi sveglio pensando ad una frase: “c’era
una volta”…
Comincio a scrivere come se mi rivolgessi ad un bambino,
come se potessi raggiungere il bambino che è dentro
di me. Ho cercato un linguaggio libero da pregiudizi e da
paure.
Provo un senso di ribellione all’idea di essere trattato
come un bambino disubbidiente a cui si dice ancora “
attento all’uomo nero che ti mangia tutto intero”…
questa è la cantilena che ascoltiamo da anni, questo
lo strumento usato per renderci più docili, più
fragili, più bisognosi di protezione.
Ritorno da Timnit e le
domando di imbarcarsi con me, su una barca immaginaria, quella
della rappresentazione. Le propongo di reinterpretare alcuni
momenti della sua storia vera con l’intesa e l’intento
di poter cambiare, di poterla riscrivere, ricreare. Le propongo
l’incontro con un'altra donna, un’isolana, con
la stessa voglia di andare, di ricostruire altrove, per migliorare
se stessa per aiutare suo figlio a crescere senza paura.
[emanuele crialese]