Il Leone
d'oro alla 63° Mostra del cinema di Venezia, presentato
durante la kermesse lagunare come "film a sorpresa",
è un dramma naturalistico-sentimentale, critico sulla
necessità di smantellare e sommergere intere città
per costruire centrali idroelettriche (torna tristemente alla
memoria il disastro del Vajont del 1963, narrato con acume
intellettuale e lucida fermezza dal nostro Marco Paolini).
In Cina é il caso dell'antica città di Fengjie
e del progetto idrico Three Gorges voluto dal governo.
Si comincia con un bellissimo piano sequenza che indaga i
volti dei passeggeri di una nave diretta a Fengjie. La città
vecchia è già sommersa dall'acqua e il nuovo
quartiere non è stato ancora terminato. Tra quei volti
c'è quello del minatore Han Sanming che va a cercare
sua moglie e sua figlia. Quando incontra la donna decidono
di tornare insieme. Shen Hong invece, un'infermiera, si reca
a Fengjie per cercare il marito scappato. Si incontrano, danzano
insieme e decidono di separarsi per sempre.
Sono due episodi che si contrappongono: nel primo c'è
uno stato di malessere che avrà un epilogo positivo,
il divorzio familiare invece è metafora del divorzio
dell'essere umano sia dalla natura (la diga "innaturale"
) che dalla sua storia (la città vecchia sommersa).
Da questi due punti chiave partono tutte le considerazioni:
quella di Fengjie è la più grande diga mai realizzata
in Cina e nel 2009 diventerà la più grande industria
elettrica al mondo. E' questo il comunismo? E' questa la sua
morale? Il luogo spettrale, il paese abbandonato, non ha più
niente di naturale. Il regista ci fa intendere come la diga
abbia la forza di influenzare le vite umane. L'uomo abbatte
i muri che egli stesso si è costruito.
Ciò che domina tutta la pellicola è un'idea
di spaesamento, l'uomo moderno è ancora così
piccolo rispetto alle gole profonde che la forza dell'acqua
disegna. E poi il regime si giustifica col turismo, volto
a sminuire gli sconvolgimenti architettonici e paesaggistici
arreccati dalla mano del governo.
Si sviluppa altresì una sorta di malessere architettonico
che invade gli spazi e il carattere dei protagonisti. Ma Jia
Zhang-Ke, a tratti, sottolinea - attraverso lucide e coerenti
inquadrature della macchina da presa - come la natura, qui
a prima vista utilizzata come contorno estetico alla storia,
è dominante e non andrebbe oltremodo stimolata o sconvolta.
Durante il film vengono sottolineati con una sovrascrittura
quattro momenti coincidenti con quattro piccoli vizi umani:
sigarette, liquore, tè, caramelle ("toffee").
Un antidoto, ci suggerisce forse il regista, contro i grandi
vizi del potere, dell'arricchimento, del cinismo.
La scena più visionaria e poetica, il tocco d'autore,
è verso la conclusione della pellicola: si vede un
palazzo nel mezzo al verde, un ecomostro futurista, una brutta
struttura postmoderna attorno alla quale i bambini (la purezza)
giocano attorno, che ad un certo punto decolla verso il cielo
come uno shuttle.
Still life, Natura morta, è
il paese abbandonato. Come ha affermato il regista "La
natura morta rappresenta una realtà che abbiamo trascurato.
Sebbene il tempo abbia lasciato tracce profonde in essa, resta
sempre in silenzio e conserva i segreti della vita".
Ottime le prove dei due attori: lui è un vero minatore,
lei una grandissima ballerina cinese, entrambi attori fedeli
di Jia Zhang-Ke). Film intenso, lento e godibile, socialmente
"necessario".
[simone pacini]
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