In
attesa dell’imminente uscita americana del suo prossimo
film, Stranger Than Fiction, ecco
che approda nelle nostre sale l’ultima fatica di Marc
Forster, Stay. Nato in Germania
ma cresciuto in Svizzera e trapiantato negli Usa a partire dal
1990, anno in cui ha perfezionato i suoi studi cinematografici,
Forster, già regista di Monster’s
Ball e di Neverland, prosegue
con Stay il percorso psicologico
che aveva iniziato con il suo film d’esordio, il sottovalutato
Everything Put Together, horror
familiare in cui una giovane madre perde il proprio bambino
e non riesce più a riprendersi. In Stay
Forster si insinua nei meandri oscuri della mente umana attraverso
la storia di uno psichiatra, Sam Foster, alle prese con i problemi
di un giovane paziente, Henry Lethem, in preda a crisi esistenziali
e minacce suicide. Man mano che le sedute psicanalitiche hanno
luogo anche il rapporto che si instaura tra i due diventa sempre
più intimo. Tanto che il confine che separa realtà
e fantasia si assottiglia sempre di più. Sam si lascia
trascinare nel labirinto della mente di Henry e il sottile legame
che lo unisce al mondo della razionalità finirà
per rompersi inesorabilmente…
Affascinante e complesso thriller psicologico, Stay
(che significa “Resta” e fa riferimento alle ultime
parole udite da Henry prima di morire che risuonano imploranti
per tutto il film) analizza la realtà dal punto di vista
di un ragazzo sul punto di morte. E come in un sogno, quando
non si riesce più a distinguere ciò che è
reale da ciò che non lo è e tutto sembra così
vero finché non ci si sveglia, quello che accade è
soltanto il frutto, più o meno inconscio, dell’immaginazione
di una mente sconnessa che non riesce a ricostruire perfettamente
quello che vede. Si tratta di un attimo. Quel breve attimo che
separa la vita dalla morte. E quell’attimo così
breve nel tempo reale è talmente lungo per il cervello
umano da permettergli di inventarsi un intreccio di storie per
spiegare quello che ha intorno. Stay è
il racconto dell’anima di un uomo che sta per morire e
mescola quello che sente e vede nella frazione di un secondo
e quello che la sua mente rielabora sulla base del ricordo della
vita vissuta fino a quel momento.
Sin dall’inizio il film si rivela surreale, onirico, quasi
inspiegabile. Pullula di immagini e personaggi dejavu che si
ripresentano con cadenza regolare. Niente è come sembra
perché niente in realtà esiste. E’ tutto
nella mente di Henry che proietta se stesso nella rappresentazione
visiva di Sam attorno a cui crea un intricato susseguirsi di
avvenimenti che solo in parte riflettono la vera essenza delle
cose. Giochi di luci, scale vorticose, atmosfere cupe e sbiadite,
una New York irriconoscibile (solo il ponte di Brooklyn resta
inalterato). Tutto è distorto. E irreale. Proprio come
in un sogno. O meglio in un incubo.
[marco catola] |
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