La condivisione
della musica sul web a livello economico ha certamente causato
più danni all'industria musicale che benefici; eppure
ad uno sguardo più attento non sfuggirà che la
fruizione si è estesa, si è personalizzata e per
alcuni aspetti è indubbiamente migliorata. Questo pensiero
forse è alla base del progetto intrapreso quasi due anni
fa da Ridley Scott, il quale in veste di produttore pensò
di sollecitare la nutrita schiera di fan di Springsteen a condividere
le ragioni della loro passione per la rockstar americana sul
web. Al giovane Baillie Walsh è toccato visionare, raccogliere
e dare senso compiuto all'imponente mole di materiale proveniente
da tutto il mondo, arricchendolo con filmati live del Boss.
Molti cantautori hanno dichiarato che le canzoni sono di chi
le ascolta nella stessa misura in cui appartengono ai loro legittimi
autori: anche senza tirare in ballo le più elementari
nozioni di semiotica, questo concetto in un epoca di contenuti
mediati e rielaborati è quantomai opportuno e costituisce
la forza e la novità di questo documentario. Poco è
importato agli autori raccontare per l'ennesima volta le notti
insonni di un ventiquatrenne ex ragazzo prodigio del New Jersey
impegnato a suggellare una poetica romantica e disperata di
rock 'n roll, nel pieno disincanto degli anni '70, dormendo
sul divano di un magazzino di surf. È sembrato invece
più interessante e significativo ascoltare come a distanza
di più di trent'anni una canzone come Thunder Road possa
essere associata alla perdita della verginità o utilizzata
come piccolo vademecum di valori positivi da trasmettere ai
propri figli.
Il rischio maggiore del documentario sul rock è quello
di sfociare nell'agiografia, presentando l'artista di turno
nei suoi viaggi dagli hotel ai palcoscenici come un messia che
con un gesto della mano manda in delirio masse oceaniche. Il
pericolo qui viene quasi completamente scampato alternando la
lucida follia di chi segue concerti e scalette per tutta una
vita, alla divertita disperazione di chi acccompagna la fidanzata
durante maratone di tre ore e mezza solo per dovere di coppia
o all'ironia di chi si è travestito da Elvis per essere
chiamato a duettare sul palco. L'isterismo da beatlemania o
da boyband con urla e capelli strappati è bandito, perchè
lo springsteeniano non ha età né pruriti adolescenziali,
ma una tenacia e una costanza fuori dal comune (per chi fosse
interessato, ci sono pagine di Nick Hornby sull'argomento, ma
anche il divertente “Accecati dalla luce” del bolognese
Gianluca Morozzi).
Springsteen, forte di quarant'anni di liriche dirette e a volte
disarmanti nella loro semplicità e profondità,
non parla mai diretto alla camera e non è mai intervistato,
ma riesce a trasmettere buona parte dei suoi messaggi per mezzo
di chi lo ascolta, dando coerenza a questa sorta di esperimento
cinematografico-musicale e rendendo lo spettacolo fruibile anche
da chi non è fan. Martin Scorsese, che ha firmato forse
i più grandi capolavori nella categoria “documentario
rock”, è stato sempre attento innanzitutto a scegliere
i propri soggetti (le radici del Blues in “Feel like going
home”, Dylan in “No direction home”, George
Harrison in “Living in tha material world”) e dovrebbe
ammonire chiunque vorrà intraprendere questo tipo d'impresa
in futuro che, al di là della legittime sperimentazioni,
non esiste una forma che a priori possa far brillare un artista
povero di contenuti; questo film dimostra che la soluzione opposta
è certamente più praticabile. [emiliano
duroni] |