Alessandro
(Lorenzo De Angelis) è un ragazzo piuttosto ombroso,
un borderline ricco di famiglia ma costantemente roso da una
insoddisfazione profonda ed inespressa. Passa le giornate
sopra e sotto i ponti a guardare le macchine sfrecciare tra
una lettura di Pasolini, Hesse e le poesie di Bons Vian. Lo
accompagna in queste elucubrazioni la fidanzata Deborah (Clio
Bassetti), ragazza di periferia (Vigne Nuove, Nord-Est di
Roma) con poche certezze ed un solo desiderio: avere una vita
come quelle delle soap-opera televisive. Una vita spericolata
è quella a cui invece punta suo fratello Valerio (Davide
Rossi, figlio diciottenne della rock star Vasco Rossi), bullo
di periferia senza arte ne parte in conflitto con la madre
(Isabel Russinova) prostituta ed una vita fatta di violenze
casalinghe alle spalle. Chiude il cerchio dei protagonisti,
il padre di Alessandro, Andrea (Graziano Piazza), commerciante
di articoli religiosi, intollerante, insofferente, che intrattiene
rapporti occasionali con la madre della ragazza di suo figlio
(gli sceneggiatori di Beautiful non avrebbero potuto fare
decisamente meglio), per trovare poi conforto ed ascolto tra
le braccia di Angela, una ragazza problematica conosciuta
casualmente.
Un film sull’incomunicabilità, che vede genitori
e figli muoversi su sentieri percettivi e cognitivi divergenti,
incapaci di dialogare, di ascoltarsi, chiusi in monologhi
rissosi e logorroici. Un film sul disagio giovanile messo
in scena attraverso una impressionante sequela di luoghi comuni,
frasi fatte messe in bocca ai protagonisti con assai poca
convinzione e recitate in maniera monocorde dall’intero
cast.
Tratto dall’omonima commedia teatrale di Alberto Bassetti,
vincitrice del premio G. Fava nel 1995, questa trascrizione
cinematografica da parte dello stesso autore, qui al debutto
dietro la macchina da presa, soffre dell’impianto teatrale
originale e non bastano timidi tentativi di innestarvi la
macchina cinema (gratuiti movimenti di macchina, montaggio
approssimativo che elude il più semplice campo-controcampo
nelle scene di dialogo immergendosi quasi fosse Von Trier
in cambi di campo diretti) per salvare un’opera illuminata
dalla sola fotografia di Giulio Pietromarchi, capace di rendere
la periferia di Roma con sfumature vagamente pasoliniane ed
il centro della città lontano da facili inclinazioni
agiografiche. [fabio
melandri]