Il mondo
Yiddish è di nuovo sul grande schermo, ancora una volta
trattato con uno stile ironico e divertente che fa pensare
a Woody Allen. La pellicola “Simon
Konianski”, diretta da Micha Wald (alla sua seconda
fatica registica) racconta la vita di Simon (Jonathan Zaccaï),
35 anni, un eterno adolescente, senza lavoro. Abbandonato
dalla compagna, una danzatrice goy, torna a vivere con il
padre Ernest (Popeck), ex-deportato, di cui rifiuta nettamente
le credenze religiose sionistiche. L'anziano ebreo, consapevole
del rapporto teso esistente con il film, decide di rendergli
impossibile la permanenza, per spingerlo ad andare via. La
scena della cena con i parenti e una giovane ebrea presente
per farla diventare la sua futura sposa, è davvero
esilarante: la sceneggiatura permette a Simon di parla di
Striscia di Gaza e di palestinesi, due argomenti che di rado
si sentono nominare in un film di genere. Tra i due si inserisce
il piccolo Hadrien, figlio di Simon, molto appassionato dei
drammatici ricordi del nonno. Alla morte di Ernest, Simon
decide di rispettare l'ultimo volere del padre: seppellirlo
in Polonia. Intraprende quindi un viaggio che dal Belgio passa
per il campo di concentramento di Majdanek in Polonia, giungendo
in un cimitero vicino Lublino, dove l'anziano desidera venire
seppellito. Ovviamente il road movie serve a Simon per scoprire,
per non dire addirittura conoscere da vicino le tradizioni
e la vita del padre.
Il regista Wald, a Roma per presentare la pellicola, al riferimento
con l'autore di “Provaci ancora
Sam”, precisa che «Allen è di un'altra
generazione, diversa dalla mia. Credo ci sia un modo di verso
di confrontarsi con la famiglia di origini ebraiche. Io faccio
parte della terza generazione, non sono in collegamento diretto
con quanto è avvenuto nella seconda guerra mondiale.
Conosco la storia dai racconti dei miei nonni: questo mi porta
ad affrontare le storie familiari non in modo frontale: la
commedia si prestava alla perfezione a raccontare questa storia».
Ad aumentare il coinvolgimento dello spettatore ci sono le
musiche: «Volevo che facessero da contrappunto alla
vicenda, e che non rinchiudessero la storia in una semplice
storiella ebrea. La samba e il cha cha cha mi sono sembrarti
adatti. Mi piaceva il contrasto tra la storia di questa famiglia
di vecchietti ebrei e la musica indiavolata».
La cifra registica è semplice, lineare, senza grandi
idee: è il contorno (la sceneggiatura, la musica, l'ambientazione
e gli interpreti), a rendere gradevole un film che sulla carta
potrebbe essere annoverato tra altri mille, ma che regala
qualche momento di unicità.
[valentina venturi]