La TV italiana
è giunta sul baratro di un precipizio troppo alto, cadere nel
vuoto ormai è inevitabile. Il vuoto è la stupidità,
la superficialità. Il trattare tutto come un reality. Anche
i sentimenti. Scaraventati come fenomeni da baraccone in prima serata,
in pasto alla massa affamata che ormai frigida si consola con surrogati
di piacere momentaneo.
La desolazione che la scatola dai mille canali ci propina in questi
ultimi anni passa dal cervello come radiazioni e frequenze cattive,
filtrano il cuore e ricadono su ciò che esprimiamo. Su ciò
che siamo. Alex Infascelli è uno di noi, che guarda la tv e
la disegna nel suo film migliore, lasciandoci l’ardua sentenza.
Quella di prenderne le distanze o ammlarci per sempre.
Il siero della vanità,
quarto lavoro di Alex Infascelli dopo i primi due sconosciuti De-Generazione
ed Esercizi di stile e l’ottimo
Almost Blue revisited dal libro
di Carlo Lucarelli, è la cartina tornasole dei presagi da tempo
profetizzati in fatto di tubo catodico. Tratto da un soggetto di Niccolo’
Ammaniti, la vicenda narra la storia tinta di giallo di un pugno di
personaggi televisivi lanciati dal “Sonia Norton Show”,
un talk show dal profumo “Costanziano”, nauseante e spietato
come l’ispiratore e presentato dalla bionda Francesca Neri,
cinica e ambiziosa come mai. La sua cattiveria è quasi paragonabile
a quella di Crudelia Demon. I personaggi vengono rapiti misteriosamente
uno dopo l’altro da chissà quale feroce omicida. Sarà
l’agente dimissionario di polizia, interpretato da Margherita
Buy, che stavolta abbandona i suoi clichè e diventa una sorta
di Bruce Willis all’italiana, a trovare il bandolo della matassa
e scoprire il colpevole, seguendo con arguzia piste sottili. Ma il
colpevole si aggira tutt’oggi nelle nostre case. Ed ha il tasto
d’accensione.
Il regista romano rimane amante delle tenebre, delle tinte scure e
della non linearità di macchina. Usa interni e location claustrofobiche,
dove l’obiettivo è spesso l’occhio barcollante
di Margherita Buy (nel film menomata dopo un incidente) o quello degli
stereotipi da tv spazzatura, drogati dal maniaco prima del rapimento.
Le atmosfere si fanno a tratti inquietanti grazie ai ralenti e alle
musiche ipnotiche che calzano alla perfezione. Il lavoro non era facile.
Il genere non è semplice e cadere nel banale sarebbe stato
questione di tre scene, ma Infascelli non è nuovo a questo
tipo di lungometraggi e rende il tutto oliato grazie anche al suo
passato di video maker in campo musicale.
Il film potrebbe assomigliere in alcune scene ad uno dei tanti video
di Marilyn Manson, dove nefando, sporco e oscurità ridono al
baccanale della follia. Importante l’uso della fotografia, la
saturazione dei colori è fondamentale per molti passaggi. I
filtri sono consueti e marcati. Le riprese sono scartavetrate per
assecondare il pathos, i campi stretti e i primi piani sugli occhi
degli attori rendono l’idea dell’inquietudine che si vuol
rilasciare nella pellicola.
La storia, seppur con alternati cali di tensione, tiene il passo;
i particolari rendono il tutto verosimile (l’uomo con la rastrelliera
di telecomandi ai piedi del letto) e la caratterizzazione dei personaggi
è eccessiva ma volutamente richiesta.
Film interessante sotto tutti i punti di vista, consacra Infascelli
come uno dei migliori registi lo-fi italiani dandogli la quasi paternità
di un genere, in attesa che si confronti con un testo suo dove ne
sia anche regista. I programmi si schierano sul palinsesto, tra poco
la ricompensa. La tv in sala ci attende, tutti a tavola. Ma il video
è così sporco e maleodorante che lavarsi le mani prima
di cena non basterà. [alessandro
antonelli]