Il siero della vanità
id.
Regia
Alex Infascelli
Sceneggiatura
Antonio Manzini
Fotografia
Stefano Ricciotti
Montaggio
Esmeralda Calabria
Musica
Marco Castoldi (Morgan)
Interpreti
Francesca Neri, Margherita Buy, Valerio Mastandrea, Maddalena Maggi
Anno
2004
Durata
92'
Nazione
Italia
Genere
thriller
Distribuzione
01 Distribution

La TV italiana è giunta sul baratro di un precipizio troppo alto, cadere nel vuoto ormai è inevitabile. Il vuoto è la stupidità, la superficialità. Il trattare tutto come un reality. Anche i sentimenti. Scaraventati come fenomeni da baraccone in prima serata, in pasto alla massa affamata che ormai frigida si consola con surrogati di piacere momentaneo.
La desolazione che la scatola dai mille canali ci propina in questi ultimi anni passa dal cervello come radiazioni e frequenze cattive, filtrano il cuore e ricadono su ciò che esprimiamo. Su ciò che siamo. Alex Infascelli è uno di noi, che guarda la tv e la disegna nel suo film migliore, lasciandoci l’ardua sentenza. Quella di prenderne le distanze o ammlarci per sempre.
Il siero della vanità, quarto lavoro di Alex Infascelli dopo i primi due sconosciuti De-Generazione ed Esercizi di stile e l’ottimo Almost Blue revisited dal libro di Carlo Lucarelli, è la cartina tornasole dei presagi da tempo profetizzati in fatto di tubo catodico. Tratto da un soggetto di Niccolo’ Ammaniti, la vicenda narra la storia tinta di giallo di un pugno di personaggi televisivi lanciati dal “Sonia Norton Show”, un talk show dal profumo “Costanziano”, nauseante e spietato come l’ispiratore e presentato dalla bionda Francesca Neri, cinica e ambiziosa come mai. La sua cattiveria è quasi paragonabile a quella di Crudelia Demon. I personaggi vengono rapiti misteriosamente uno dopo l’altro da chissà quale feroce omicida. Sarà l’agente dimissionario di polizia, interpretato da Margherita Buy, che stavolta abbandona i suoi clichè e diventa una sorta di Bruce Willis all’italiana, a trovare il bandolo della matassa e scoprire il colpevole, seguendo con arguzia piste sottili. Ma il colpevole si aggira tutt’oggi nelle nostre case. Ed ha il tasto d’accensione.
Il regista romano rimane amante delle tenebre, delle tinte scure e della non linearità di macchina. Usa interni e location claustrofobiche, dove l’obiettivo è spesso l’occhio barcollante di Margherita Buy (nel film menomata dopo un incidente) o quello degli stereotipi da tv spazzatura, drogati dal maniaco prima del rapimento. Le atmosfere si fanno a tratti inquietanti grazie ai ralenti e alle musiche ipnotiche che calzano alla perfezione. Il lavoro non era facile. Il genere non è semplice e cadere nel banale sarebbe stato questione di tre scene, ma Infascelli non è nuovo a questo tipo di lungometraggi e rende il tutto oliato grazie anche al suo passato di video maker in campo musicale.
Il film potrebbe assomigliere in alcune scene ad uno dei tanti video di Marilyn Manson, dove nefando, sporco e oscurità ridono al baccanale della follia. Importante l’uso della fotografia, la saturazione dei colori è fondamentale per molti passaggi. I filtri sono consueti e marcati. Le riprese sono scartavetrate per assecondare il pathos, i campi stretti e i primi piani sugli occhi degli attori rendono l’idea dell’inquietudine che si vuol rilasciare nella pellicola.
La storia, seppur con alternati cali di tensione, tiene il passo; i particolari rendono il tutto verosimile (l’uomo con la rastrelliera di telecomandi ai piedi del letto) e la caratterizzazione dei personaggi è eccessiva ma volutamente richiesta.
Film interessante sotto tutti i punti di vista, consacra Infascelli come uno dei migliori registi lo-fi italiani dandogli la quasi paternità di un genere, in attesa che si confronti con un testo suo dove ne sia anche regista. I programmi si schierano sul palinsesto, tra poco la ricompensa. La tv in sala ci attende, tutti a tavola. Ma il video è così sporco e maleodorante che lavarsi le mani prima di cena non basterà. [alessandro antonelli]