Cartoline
dall’inferno. Sono quelle che Lajos Voltai direttore della
fotografia per Istvan Szabo (Mephisto,
premiato con l’Oscar; Il Colonnello
Redl) e Giuseppe Tornatore (La
leggenda del pianista sull’oceano, Malena)
qui al suo debutto dietro la macchina da presa, scatta per illustrarci
l’adolescenza di un giovane ebreo ungherese Gyuri Koves
deportato insieme ad altri 600.000 connazionali nei campi di
concentramento di Auschwitz e Birkenau. Tratto da romanzo del
Premio Nobel per la Letteratura Imre Kertész e sceneggiato
dallo stesso autore, Senza destino
è un film elegante nella forma – lenti e sontuosi
movimenti di macchina, luci ed immagini ricercatissime –
e freddo nella sostanza, nel congelamento del tasso emotivo
di cui la pellicola è impregnata.
Un film diviso in tre atti, ognuno dei quali caratterizzato
da una dominante cromatica precisa e semantica.
Il primo atto si apre a Budapest nella descrizione del passaggio
obbligatorio del quattordicenne Gyuri Koves dall’età
della fanciullezza e spensieratezza a quella adulta della responsabilità
e coscienza. La partenza del padre per il lavoro obbligatorio,
l’abbandono della scuola, la consapevolezza del futuro
che il destino a lui assegnato, sono messe in scena attraverso
i colori seppiati del ricordo e della nostalgia.
Il secondo atto raccontato attraverso una dominante tonale venata
di azzurro sono i giorni dell’incertezza, del rastrellamento
nelle case e sugli autobus, dei campi di smistamento e dei lunghi
viaggi in treno attraverso l’Europa. Sono i giorni della
separazione e della paura, i giorni in cui le voci un tempo
così lontane e mitologiche di campi di concentramento
e forni diventano pian piano sostanza e realtà.
Il terzo e principale atto di questa tragedia umana è
raccontato attraverso i colori grigi del cielo e della neve
sporcati di cenere. La vita nei campi di concentramento è
fatta di piccoli gesti quotidiani, di meschine lotte per la
sopravvivenza, di contrattazioni e striscianti vendette. Un
luogo in cui il significato di ‘destino’ appare
in tutta la sua crudezza. “Sai qual è il destino
di noi ebrei? Sopportare con paziente rassegnazione le persecuzioni
di cui siamo vittime, per espiare colpe del passato.”
Questa è la prima lezione che il giovane Gyuri apprende
da un anziano rabbino. Un senso di rassegnazione che è
nello stesso tempo il punto di forza psicologico di un giovane
uomo e di un popolo intero capaci di sopravvivere silenziosamente
al destino assegnatoli, anzi al proprio Senza
destino.
Se la Storia è una serie di eventi pianificati e in parte
prevedibili – basti pensare che lo Shoah fu ideato ed
approvato dal regime nazista nello spazio di un pomeriggio,
in un’ora di discussione -, i destini dei singoli uomini
sono soggetti sin troppo ai colpi della causalità, talmente
imprevedibile da porci in uno stato di perenne impotenza. Ma
la rassegnazione è anche il punto di partenza per la
sopravvivenza, per la capacità di vedere la felicità
anche in un luogo così vicino ai gironi infernali come
i campi di concentramento. E la felicità risiedeva per
il giovane protagonista del film in un preciso momento della
giornata, nell’ora che separava il ritorno dai campi di
lavoro con l’adunata serale, quell’ora che coincideva
con la cena e con il tramonto del sole che colorava la natura
circostante quei monumenti all’umana depravazione.
Un film che nulla toglie e nulla aggiunge all’argomento,
nei confronti del quale si deve un obbligo morale di rispetto
ma che rimane incapace per la sua confezione sin troppo ricercata
e patinata di coinvolgere emotivamente. Ma forse non era nelle
intenzioni del suo autore, di mantenere comunque vivo il ricordo
per le generazioni future e visto quanto accaduto recentemente
in alcuni stadi italiani, ne abbiamo ancora molto bisogno. [fabio
melandri]
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