Il
primo film ha creato l’universo di riferimento. Il secondo
vedeva Alice sfuggire al complotto orchestrato per ucciderla.
Il terzo e forse conclusivo capitolo, ci ripropone i medesimi
personaggi sperduti nel deserto di Las Vegas, in fuga da una
massa di non-morti che sono in agguato negli spazi ampi e
vuoti di quella che non può essere più considerata
una civiltà.
Trattansi del conclusivo, ma non ci metteremmo la mano sul
fuoco, capitolo di Resident Evil,
nato da un videogioco e trasformata in saga cinematografica
da 100 milioni di dollari da Paul W.S. Anderson, qui nella
sola veste di sceneggiatore, che almeno a lui un vantaggio
l’ha portato: ha sposato la bella protagonista Milla
Jovovich. “Il terzo film è ambientato alla fine
del mondo – racconta Anderson - Quello che abbiamo conosciuto
è stato spazzato via dal T-Virus e soltanto un piccolo
microcosmo di umanità è rimasto. E’ una
sorta di modello della famiglia del futuro, questo gruppo
di sopravissuti che fanno parte di un convoglio armato che
è sempre in movimento, per cercare di evitare i guai
e sfuggire ai non-morti.”
Ma come i film tratti da videogame insegnano, la trama è
elementare, i personaggi stereotipati, i dialoghi di maniera
per una messa in scena che cita e omaggia il passato (Mad
Max, Interceptor il guerriero della strada) senza proporre
nulla di nuovo per il futuro.
Una pellicola di plastica, fredda, asettica che il regista
Russel Mulcahy (Highlander) tenta
di ravvivare nelle flessuose forme della sua protagonista
non potendo contare troppo sul make-up dei non morti che sembrano
gli scarti di film come 28 settimane
dopo ed affini.
Rispetto ai capitoli precedenti, i toni scuri, sepolcrali,
claustrofobici, sono sostituiti dalla luce forte e potente
del deserto, dai vuoti desolati e post-apocalittici degli
ambienti che non vengono sfruttati adeguatamente in tutto
il loro potenziale. Un film di puro entertainment per chi
si accontenta…
[fabio melandri]