Dopo
le videocassette assassine, telefoni cellulari, ed altri “oggetti
che uccidono” (metafore della cattiva televisione e del
consumismo sfrenato - forse, ma varrebbe davvero la pena approfondire?)
questa volta sono un paio di scarpe da donna a cavalcare l’onda
filmica che giunge dall’oriente, oramai annaspante come
il “genere” che rappresenta.
Scarpette Rosse. Aggiungiamo la danza, cui si allude fin dai
titoli di testa, e, sulle prime, il pensiero va, inevitabilmente,
all’omonimo capolavoro di Powell/Pressburger.
Un colto, affettuoso omaggio al grande cinema europeo! Falso
allarme. Ricominciamo da capo. La vicenda è liberamente
ispirata all’omonima favola di Hans Christian Andersen,
sulla quale, a dire il vero, si basa anche l’opera della
mitica coppia di cineasti britannici, con risultati neppure
paragonabili a quelli raggiunti dal film in questione. In The
Red Shoes del coreano Kim Yong-gyun (esordio nel lungometraggio
nel 2001 con Wanee wa Junah, film
malinconico ed introspettivo sull’amore tra due ventenni,
gran successo in patria) in un mix di horror, mystery e ghost-story,
si narrano le disavventure di Sun-jae e della sua famiglia,
apparentemente normale e serena, composta dal marito e dalla
figlia Tae-soo. Contro le apparenze, si scopre invece che il
marito tradisce la donna e che sua figlia le preferisce il padre,
mentre lei cerca di sopperire alla sua frustrante solitudine
con una passione feticista per le scarpe. Scoperto il tradimento,
Sun-jae decide di lasciare il marito e di portare con se la
bambina in un'altra città, prendendo in affitto un misero
appartamento di uno stabile fatiscente e frequentato da strani
personaggi ed inquietanti “presenze”. Un giorno
Sun-jae rinviene nella metropolitana un paio di scarpe rosse
abbandonate e, fortemente attratta, decide di raccoglierle.
La figlia, appassionata di danza classica e presa in giro dalle
sue compagne di corso perché priva di talento, prova
identica attrazione per l’”oscuro oggetto del desiderio”
che la madre ha portato in casa. Guai per tutti in vista.
L’inizio sembra promettente. Sui titoli di testa, in assenza
di commento sonoro, alcune inquadrature, costruite con piani
di ripresa medi e lunghi, primi piani del volto del soggetto,
colgono efficacemente, in rapida successione, le livide e claustrofobiche
atmosfere del cunicolo “underground”, prima della
fulminea, indubbiamente spaventevole e ben effettata sequenza
horror/gore. Ma è un fuoco di paglia. A fronte di una
sceneggiatura pasticciata, che cerca di innestare ulteriori
varianti al già di per se zoppicante canovaccio tramico,
in maniera confusa e incomprensibile, il montaggio, grezzo e
cedevole, non riesce da parte sua ad incastrare col giusto ritmo
e precisione i vari segmenti narrativi. L’intera messinscena
scade nei più risaputi e consunti luoghi comuni del “genere”.
La tensione si smorza; la suspense non monta in un frastuono
visivo, narrativo e sonoro d’irritante insistenza. Eccezione
fatta per qualche rara scena meglio attrezzata. Non manca l’ennesimo
rimando all’abusata icona, di “samaresca”
memoria, della giovinetta dal viso mortifero, l’occhio
torvo e diabolico, celato sotto la lunga e corvina coltre capelluta.
Qualche sobbalzo, del tutto “automatico”, deriva
dal classico ed ingenuo (ma a quanto pare sempre efficace) “trucco”
dell’improvvisa apparizione - alle spalle, di fianco,
oppure dietro la porta appena dischiusa -, di una più
che reale, vivente ed innocua figura umana. In assenza di un
progetto che miri alla caratterizzazione dei personaggi (pur
senza necessariamente scomodare l’approfondimento psicologico),
a dialoghi meno banali, e a meglio circostanziare la vicenda
sui piani temporali, oltre che geometrici-spaziali, le citazioni
cinefile, più irriverenti che omaggianti, tuttavia si
sprecano. Dalle apparizioni di fantasmi in fondo ai corridoi
dell’Overlook Hotel, fino alla doccia di sangue del depalmiano
Carrie - Lo sguardo di Satana,
si cerca di sopperire con distratte evocazioni, in modo inane
ed imbarazzante, al vuoto strutturale di una pellicola svogliata,
inerme ed inutile. Del tutto anonimo, in linea con la messinscena,
l’intero cast attoriale. Più bella che brava Kim
Hye-soo, nei panni di Sun-jae.
[giuseppe mariani]
|
|