Dove non
arriva la fantasia degli sceneggiatori, compensa la realtà.
Di storie incredibili questa ne è piena. Ricordate
quel pizzaiolo fedifrago che fu soggetto a numerosi tentativi
di assassinio da parte della moglie con la complicità
nell’ordine di un cameriere, un conducente d’autobus,
due balordi tossicomani e della di lei madre? Lui per tutta
risposta invece di denunciarla, rimase al suo fianco impegnadosi
nel riconquistarla. Oppure quel giovane di nome Frank Abbagnale
in fuga dalla legge che si faceva passare di volta in volta
per medico, pilota di linea, avvocato e il tutto prima di
compiere 21 anni?
Dopo Lawrence Kasdan (Ti amerò
fino ad ammazzarti) e Steven Spielberg (Prova
a prendermi), un altro maestro del cinema americano
ci racconta l’incredibile storia di un altro italo-americano
(come nei due esempi precedenti) alle prese con una storia
che sembra talmente incredibile da essere vera, anzi tristemente
verissima.
Il regista è Sidney Lumet (La
parola ai giurati, Quel pomeriggio
di un giorno da cani, Uno sguardo
dal ponte, L’uomo del banco
dei pegni, La collina del disonore,
Quinto potere tanto per citare alcuni dei capolavori
da lui realizzati), il nostro protagonista Jackie DiNorscio
(Vin Diesel), un arrogante teppistello mafioso che durante
uno dei processi giudiziari più lunghi della storia
americana - 21 mesi tra il 1987 e il 1988, 20 imputati con
20 avvocati difensori (uno per ogni imputato), 8 giurati sostitutivi
per l’estrema lunghezza già prevista del processo
e per i timori di corruzione dei membri della giuria, arringhe
della difesa insolitamente lunghe anche cinque giorni –
decise di difendersi da solo, riuscendo alla fine a fare assolvere
se stesso e tutti i 19 imputati connessi.
Una delle più clamorose sconfitte del sistema giudiziario
americano è oggi portato sullo schermo attraverso gli
schemi collaudati della classica commedia americana, raccontandoci
l’ennesima versione del sogno americano ma rovesciato
nei suoi contenuti e valori. In questo caso infatti siamo
di fronte ad un contro-eroe americano, un mafioso, trafficante
di cocaina, bugiardo e sfruttatore di prostitute ma nello
stesso tempo portatore sano di valori come quello della lealtà,
della famiglia (anche se in questo caso parliamo della degenerazione
di questi concetti, visto che l’ambiente è quello
dichiarato ed acclarato della mafia) e della leggerezza.
La sceneggiatura, costruita sui verbali del processo, più
che entrare nel merito delle procedure penali, nell’illustrazione
delle prove, nella narrazione nel processo (ed infatti dal
film non si capisce come gli imputati abbiano potuto farla
franca), si addentra sui processi cognitivi ed emozionali
dei legami parentali, di sangue o acquisiti che siano, che
legano imputati ed accusatori, in un gioco di specchi che
frantuma la realtà in una miriade di vissuti.
Un film che è una grande prova attoriale di Vin Diesel,
si avete letto bene, quella montagna di muscoli protagonista
di action movie come Pitch Black,
Fast and Furious, XXX,
che il regista Lumet ha fortemente voluto nel progetto dopo
averlo visto recitare nel cortometraggio diretto dall’attore
stesso intitolato Multi-Facial,
in cui interpretava il ruolo di un attore che nello stesso
giorno si presentava a diverse audizioni. 20 minuti per scoprire
un nuovo talento a detta di Lumet ed anche nostro dopo averlo
visto invecchiato, imbolsito nei panni di Jack DiNoscio.
Certo non siamo dalle parti del capolavoro. La
parola ai giurati rimane un lavoro assolutamente non
paragonabile a questo sia per l’asciuttezza del racconto
che per la tensione morale che sottendeva il film del 1957.
Ma nonostante gli 82 anni di età, Lumet ha mantenuto
una lodevole capacità di rendere il sostrato psicologico
dei personaggi con poche pennellate e restituirceli in forme
facilmente riconoscibili attraverso sfumature recitative ed
una direzione d’attori tutt’altro che vetusta.
[fabio melandri]