Il profeta
Un prophéte
Regia
Jacques Audiard
Sceneggiatura
Thomas Bidegai, Jacques Audiard
Fotografia
Stéphane Fontaine
Montaggio
Juliette Welfling
Scenografia
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Costumi
Virginie Montel
Musica
Alexandre Desplat
Interpreti
Tahar Rahim, Niels Arestrup, Adel Bencherif, Reda Kateb, Hichem Yacoubi, Jean-Philippe Ricci, Gilles Cohen, Antoine Basler, Leïla Bekhti, Pierre Leccia, Foued Nassah, Jean-Emmanuel Pagni
Produzione
Why Not Productions, Chic Films, Page 114, France 2 Cinéma,
UGC Images, Bim Distribuzione, Celluloid Dreams
Anno
2010
Nazione
Francia, Italia
Genere
drammatico
Durata
149'
Distribuzione
BiM Distribuzione
Uscita
19-03-2010
Giudizio
Media

Malik arriva in carcere privo di affetti, di legami e di un qualunque passato, e ne esce uomo nuovo, pronto a iniziare una nuova vita con la compagna di un defunto “Collega”, temprato dall'esperienza e formato alla vittoria sul prossimo per sopraffazione, come del resto già il sottotitolo dell'edizione italiana, “Uccidi o sarai ucciso”, preannunciava.
Tra l'uno e l'altro evento, inizio e fine del film, ci sono le angherie degli altri detenuti, gli incarichi assegnati al protagonista dal boss corso del carcere. La fiducia crescente che Malik si guadagna agli occhi di quest'ultimo.
Il profeta è la storia della creazione di un carattere a partire dal suo grado zero, dalla creazione della personalità alla scelta di una collocazione nel mondo: scelta che prende le sembianze dell'appartenenza etnica, visto che, Malik, è, almeno nella prima parte del film, corso per gli arabi e arabo per i corsi. L'assenza di un passato è per lui assenza di un presente in cui identificarsi ed essere identificato. Solo l'esperienza gli consentirà alla fine di collocarsi in maniera chiara con una delle due parti.
Nelle intenzioni dell'autore il protagonista doveva essere l'anti-scarface. Come l'esule cubano del film di De Palma, infatti, Malik costruisce se stesso a partire dal niente, ma mai, al contrario del gangster alpaciniano, Malik si mostra travolto dalle proprie nevrosi.
Il punto debole del film rimane il troppo frequente ricorso a certi clichè del cinema di ambiente carcerario, con cui il dimostra di non saper giocare per creare qualcosa di nuovo, e che finiscono con il creare troppi tempi morti in un film altrimenti interessante.
[davide luppi]