Malik
arriva in carcere privo di affetti, di legami e di un qualunque
passato, e ne esce uomo nuovo, pronto a iniziare una nuova
vita con la compagna di un defunto “Collega”,
temprato dall'esperienza e formato alla vittoria sul prossimo
per sopraffazione, come del resto già il sottotitolo
dell'edizione italiana, “Uccidi o sarai ucciso”,
preannunciava.
Tra l'uno e l'altro evento, inizio e fine del film, ci sono
le angherie degli altri detenuti, gli incarichi assegnati
al protagonista dal boss corso del carcere. La fiducia crescente
che Malik si guadagna agli occhi di quest'ultimo.
Il profeta è la storia
della creazione di un carattere a partire dal suo grado zero,
dalla creazione della personalità alla scelta di una
collocazione nel mondo: scelta che prende le sembianze dell'appartenenza
etnica, visto che, Malik, è, almeno nella prima parte
del film, corso per gli arabi e arabo per i corsi. L'assenza
di un passato è per lui assenza di un presente in cui
identificarsi ed essere identificato. Solo l'esperienza gli
consentirà alla fine di collocarsi in maniera chiara
con una delle due parti.
Nelle intenzioni dell'autore il protagonista doveva essere
l'anti-scarface. Come l'esule cubano del film di De Palma,
infatti, Malik costruisce se stesso a partire dal niente,
ma mai, al contrario del gangster alpaciniano, Malik si mostra
travolto dalle proprie nevrosi.
Il punto debole del film rimane il troppo frequente ricorso
a certi clichè del cinema di ambiente carcerario, con
cui il dimostra di non saper giocare per creare qualcosa di
nuovo, e che finiscono con il creare troppi tempi morti in
un film altrimenti interessante.
[davide luppi]