“Raccontare
una persona comune con doti straordinarie e nessuna voglia
di apparire.” Questo l’obiettivo che si era posta
Riccardo Milani una volta immerso nella realizzazione della
biografia, tratta dal romanzo di Walter Veltroni Il
disco del mondo, biografia del pianista Luca Flores,
morto suicida all’età di 40 anni. “Il problema
più grande affrontato è stato quella della credibilità.
Attenzione alla misura dovendo affrontare la storia vera di
una persona vera. Ed è la cosa che più ho apprezzato
nell’incontro con i famigliari di Luca, ovvero il loro
modo di affrontare le cose, il grande senso della misura.”
Luca Flores fu un musicista jazz di grande talento. Nella
sua breve vita ebbe modo di suonare con grandi musicisti,
Chet Baker su tutti, di vivere intensamente ma non smoderatamente
una vita infettata da un grave lutto adolescenziale, la morte
della madre durante un incidente automobilistico in Africa.
Infezione che lentamente si fa strada nella personalità,
nei pensieri ed anche nell’arte di Flores, che diviene
isola felice ma al contempo prigione in cui finirà
per morire, davanti all’incapacità della famiglia
e della fidanzata di aiutarlo nonostante i numerosi tentativi.
Un racconto chiaroscurale, in cui alla luce calda e viva dei
ricordi adolescenziali in Africa, il padre di Luca era un
geologo di fama internazionale, si contrappone la lividezza
dei colori del presente in Italia, a Firenze, con il decorso
del suo talento che procede pari a quello della sua malattia.
Milani sceglie una messa in scena canonica senza troppi istrionismi
“Il mio è un film su un musicista non sul jazz”,
con una regia lineare non invasiva, attenta ai dettagli che
colorano il mood della narrazione e cadenzano il climax dello
sviluppo narrativo degli eventi. Kim Rossi Stuart dimostra
ancora una volta di essere uno dei migliori interpreti italiani.
Dosato, minimalista, introspettivo, riesce con un solo sguardo
a trasmettere allo stesso tempo la dolcezza di carattere del
personaggio e la deriva psicologica della malattia. Riesce
a trasmettere il caos calmo che governa la mente di Luca Flores
senza mai scadere nella prova da grand’attore. Coadiuvato
da personaggi di contorno funzionali, nota di merito alla
sofferta figura del padre interpretato da Michele Placido,
il film mantiene un equilibrio inusuale per almeno i due terzi
della sua durata per sbrodolare nella mezz’ora finale
in cui si decide di spingere sul pedale della commozione forzata,
attraverso un calco troppo profondo degli avvenimenti che
portarono il musicista al tragico gesto finale, e la chiusa
sui filmini super8 realizzati dalla vera famiglia Flores durante
il loro periodo più felice, in Africa; un ricatto morale
francamente inutile che nulla toglie e nulla aggiunge a quanto
rappresentato in una pellicola imperfetta ma da vedere.
[fabio melandri]