Uno
dei sogni irrealizzati del maestro della suspence Alfred Hitchcock
era quello di girare un film nello spazio angusto di una cabina
telefonica. Si limitò ad una scialuppa di salvataggio
in Prigionieri dell’oceano
(1944) da un soggetto di John Steinbeck. Diede vita al suo sogno
quasi 60 anni più tardi Joel Schumacher con il thriller
In linea con l’assassino.
Il risultato fu deludente. Oggi i Manetti Bros (al secolo Marco
e Antonio Manetti) tentano un po’ per gioco un po’
per forza la via della sperimentazione estrema ambientando la
loro ultima fatica cinematografica negli spazi claustrofobici
di un ascensore, Piano 17.
Da un’idea dell’attore e regista teatrale Giampaolo
Morelli, qui anche protagonista, i Manetti Bros si inventano
produttivamente un film no-budget, girato in 5 settimane, con
un camera digitale ad alta definizione del valore di Euro 4000,
rigonfiato su pellicola per Euro 18000 (grazie all’intervento
di uno sponsor presente nel film, ovvero H3G) per un costo complessivo
di Euro 88000 euro più, euro meno. Registi, attori, tecnici
e maestranze hanno lavorato gratuitamente, anzi molti ci hanno
anche investito dei loro soldi (attori in primis).
Detto questo, non pensate ad un filmetto due camere e cucina,
con recitazioni sciatte e dilettantistiche, tanto comuni nel
povero cinema italiano. Tutt’altro. Piano
17 è un piccolo gioiello sui generis, un thriller
che gioca con gli stereotipi del genere, frantumando la linearità
della narrazione attraverso l’uso di flashback e digressioni
che danno respiro ed epicità a storia e personaggi. Due
riferimenti vengono in mente nell’immediato: Quentin Tarantino
e Stanley Kubrick. Il primo per la frantumazione narrativa di
cui sopra e per la riuscita caratterizzazione dei personaggi,
stereotipati come il genere richiede ma pieni di vitalità
e verosimiglianza; il secondo per la capacità dei Manetti
di dare voce ad ambienti (i corridoi e le stanze del palazzo
di vetro in cui si svolge la vicenda riportano alla mente gli
stessi vuoti inquietanti ed oppressivi dell’Overlook Hotel
di Shining) e utilizzare luci ed
ombre in funzione non puramente illustrativa ma significante.
Punto di forza ed elementi fondamentali per dare la giusta tonalità
al film le interpretazioni dell’intero cast con note di
merito in particolar modo a Giampaolo Morelli (il buono), Antonino
Iuorio (il brutto) ed Enrico Silvestrin (il cattivo) affiancati
dall’amichevole partecipazione di Massimo Ghini, capace
di rendere il suo personaggio in maniera così viscerale
che, sebbene sia centrale nella vicenda ma con pochissime pose
nella realtà, rimane impresso nella memoria con una forza
e lucidità inusuale.
Un film che è un grande atto d’amore verso il cinema,
verso il mestiere del cinema e che nel panorama asfittico della
produzione nostrana rappresenta un piccolo miracolo italiano.
[fabio melandri]
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