Negli
ultimi decenni del XV secolo, Re Ferdinando e la regina Isabella,
riunificarono la Spagna in nome del cattolicesimo. Dopo secoli
di convivenza, Ebrei e Mussulmani vengono cacciati via.
Da quest’assunto storico, Pasquale Scimeca, l’apprezzatissimo
regista di Placido Rizzotto, mette
in scena la storia di un giovane ebreo Giosuè, espulso
dalla Spagna, trova rifugio a Napoli prima ed in Sicilia poi,
dall’odio antigiudaico che si stava diffondendo nell’Europa
cristiana. Vincitore di una gara di erudizione su temi religiosi,
viene scelto per interpretare la figura di Gesù Cristo
nella Passione che si svolge il Venerdì di Pasqua. L’identificazione
tra Giosuè con la figura del Cristo diviene talmente
forte, la sua predicazione così efficace, che i potenti
del posto decidono di metterlo a morte.
In tempi di difficile convivenza tra gli uomini, in tempi di
fanatismi religiosi che reinterpretano in maniera ortodossa
i dettami di base del cattolicesimo, dell’ebraismo e dell’Islam,
annullando le basi comune su cui tutte si fondano, La Passione
di Giosuè l’ebreo rappresenta un film che seppur
nella sua imperfezione, risulta necessario.
Un film che scava sullo origini, delle tre grandi religioni
monoteiste, spiegando in maniera semplice e volutamente semplicistica
– d’altronde è un film il cui scopo è
anche intrattenere – punti di contatto e di disaccordo,
professando una sincera tolleranza che è alla base di
tutte le religioni. L’odio e l’intolleranza hanno
fatto parte della storia di tutte e tre queste religioni, in
tempi e modi diversi, ma non devono in alcun modo alterare il
profondo messaggio che queste comunemente portano in se, ovvero
amore, giustizia, misericordia. Recita il Corano “Noi
crediamo in Dio, a quello che ci è stato rivelato, a
quello che è stato rivelato ad Abramo, a Ismaele, a Giacobbe,
a quello che è stato rivelato a Mosè, a Gesù
e ai profeti da parte del loro Signore, noi non abbiamo preferenza
per alcuno di essi.” Un inno alla tolleranza e riflessione
che Scimeca con trasporto ed affetto mette in scena in un film
asciutto, secco, con il suo stile a metà strada tra affresco
storico – non servono scenografie imponenti per ricreare
un’epoca passata, ma gusto, sensibilità ed intelligenza
– e documentario teologico. Per raggiungere il suo scopo,
il regista si affida ad un convincente cast in cui primeggia
una ritrovata Anna Bonaiuto ed un ottimo Toni Bertorelli, mentre
non convince molto la scelta del protagonista Leonardo Cesare
Abude, frastornato e spaesato. Rilevanti e suggestive le musiche
etniche di Miriam Meghnagi. Ad un certo punto uno dei protagonisti
dice: “Ma perché non possiamo pregare il nostro
Dio e lasciare in pace quello degli altri?” Già,
perché? [fabio
melandri]
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