“L’adolescenza è un momento in cui molto
succede, ma nulla è definito. È la fase in cui
devi separarti dall’autorità dei genitori per
riconfigurare quello che può diventare un nuovo ordine,
sempre che ci sia bisogno di un nuovo ordine”. C’è
un elemento che ritorna in gran parte dei film di Gus Van
Sant: l’adolescenza fatta di inquietudine e solitudine,
che nella normalità nasconde la tragedia. Per quanto
fosse assente in Elephant, il
regista cinquantacinquenne in questo lungometraggio inserisce
il dubbio, l’ipotesi che un gesto involontario ma definitivo
possa distruggere, sconvolgere la vita di un sedicenne come
tanti.
Alex vive a Portland (città natale dell’autore)
e frequenta il liceo. La sua passione non sono le ragazze
– ha una fidanzata molto carina, ma più che altro
è un fastidio, un impedimento -, ma lo skateboard.
Un giorno un amico lo invita ad andare a Paranoid Park, luogo
malfamato della città dove si confrontano i più
abili esperti in materia di skateboard. Molte cose cambiano.
Dopo il pomeriggio insieme, la sera seguente i due si mettono
d’accordo per tornare a Paranoia Park. L’amico
cambia idea: preferisce andare da una ragazza, ma gli lascia
la casa, vuota, a disposizione. Alex decide di andare comunque
a fare skate: il desiderio è troppo forte, nonostante
non sia sicuro andarci da solo. Lì, seduto sul suo
inseparabile oggetto di locomozione, invece di osservare i
movimenti degli altri, pensa ai genitori che stanno divorziando
e al fratellino che tutte le sere vomita la cena per il troppo
stress. Pensieri cupi: per sfuggirgli, segue uno sconosciuto
sulle rotaie. Vogliono saltare dentro i treni merci. Basta
un attimo e Alex uccide accidentalmente un agente che li ha
scoperti. Decide di scappare e continuare la sua vita senza
dire nulla a nessuno. Da qui comincia la paura, il pentimento,
la finzione, l’indifferenza, le bugie e la ricerca di
un metodo per superare la tragedia. Lo troverà nel
consiglio di un’amica.
Il lungometraggio numero quindici, tratto dal romanzo omonimo
di Blake Nelson, non segue un percorso lineare, come invece
il libro. La storia viene ripercorsa da Alex stesso (come
gli altri interpreti, è stato reclutato tramite un
annuncio pubblicato su MySpace dove si cercavano skateboarder)
tramite flashback e ricostruzioni spazio temporali invertite.
Durante lo svolgimento della vicenda, si capirà il
perché.
Le immagini sono sia in super 8 che in 35 mm. Van Sant spiega
il motivo: “Abbiamo deciso di girare qualche sequenza
supplementare sullo skateboard in super 8. E’ decisamente
più difficile tenere una macchina da presa più
grande tenendosi in equilibrio su una plancia. Il 35 mm è
troppo costoso perché possa essere utilizzato normalmente
da coloro che realizzano filmati su skateboard”. Non
mancano scene al rallentatore, in particolare dentro i corridoi
del liceo dove la polizia si reca per interrogare gli skater
della scuola. Il rimando è immediato a Elephant,
ma anche a tutto il cinema di Van Sant. Paranoid
Park ha vinto il Sessantesimo anniversario del festival
di Cannes, anche grazie alle riprese semplici, intense e senza
troppe intromissioni: “Sul set non c’era nemmeno
il dipartimento trucco o guardaroba – precisa Van Sant.
I vestiti erano i loro, loro i tagli di capelli. Sono ragazzi
presi dalla strada. Belli, ma di una bellezza organica”.
Van Sant prosegue la sua analisi introspettiva dell’universo
adolescenziale, senza emettere alcun giudizio. [valentina
venturi]