A Düsseldorf
Finn (Campino, cantante rock del gruppo Die Toen Hosen) è
un fotografo di fama mondiale, diviso tra la carriera nella
moda e quella artistica. La sua è una vita frenetica,
senza tempo per fermarsi a pensare a se stesso e a quello
che lo circonda: il cellulare è sempre in funzione,
dorme di rado (quando capita, ha sempre degli incubi) e nelle
orecchie ha acceso un lettore mp3. La passione per le foto
è così grande da fargli rischiare la vita: di
notte mentre sta tornando a casa, scatta un’immagine
a 360° che gli evita un incidente, ma fissa sulla pellicola
la morte stessa (Dennis Hopper). La visione di un uomo bianco,
incappucciato, non l’abbandonerà più.
Durante un servizio con Milla Jovovich accetta la proposta
della modella di fotografarla in intimità, con scatti
che diano valore alla sua gravidanza. Finn accoglie la proposta
e, dopo una surreale chiacchierata con uno sconosciuto (circondati
da pecore e Finn che dorme su un albero), stabilisce come
mèta Palermo. Il termine originale della città
era Panormus, dal greco “tutto porto”, luogo dove
tutto si ricongiunge… Gli shooting di moda vanno a buon
fine, ma mentre la troupe sta smontando gli attrezzi, Finn
comunica che rimarrà in Sicilia per un periodo indefinito.
Vuole prendersi il tempo che gli è mancato e capire
cosa vuole fare della sua vita. Va a zonzo per la città,
si addormenta dove capita e tra un pranzo e uno scatto, conosce
Flavia (Giovanna Mezzogiorno), una giovane restauratrice siciliana,
impegnata su un grande affresco cinquecentesco raffigurante
il trionfo della morte. Tra i due, poco a poco, si crea un’intimità
emotiva e sentimentale.
Wim Wenders ci regala ancora una volta delle immagini avvolgenti,
una fotografia calda e ricercata, scorci che fanno pensare
ai film migliori (Nel corso del tempo,
1976; Paris – Texas, 1984;
Il cielo sopra Berlino, 1987).
Eppure il regista tedesco persiste nella vuota e didascalica
riflessione sull’uomo, sulla morte, polemizzando sull’uso
della fotografia digitale - “è una manipolazione,
si perde l’essenza delle cose” - e sul tempo che
“deve entrare in gioco”. Volendo ad ogni costo
spiegare tutto, perde in credibilità.
Basti come esempio il dialogo finale sui sommi temi tra Finn
e La morte che si muovono attraverso le scale (evidente riferimento
a Maurits C. Escher) e gli archivi comunali: sfiora il ridicolo,
il già sentito. A poco serve la dedica della pellicola
a Michelangelo Antonioni e ad Ingmar Bergman (smaccato il
riferimento a Il settimo sigillo).
Anche i cameo di personaggi famosi nel ruolo di se stessi,
la Jovovich e Lou Reed (il cantante si materializza in un
bar mentre dal jukebox Finn sceglie una sua canzone), non
rappresentano più l’identificazione filosofica
alla vicenda, ma perdono di valore rischiano di trasformarsi
in un gioco alla “indovina chi”. L’ispirazione
non è più quella di un tempo. La Mezzogiorno
interpreta il ruolo di Flavia con convinzione ed intensità
espressiva, ma viene il dubbio che sia stata scelta soprattutto
per il suo ottimo accento. “Bisogna prendere tutto sul
serio, a parte se stessi”. Wender non ha fatto propria
la frase che fa pronunciare al protagonista.
[valentina venturi]