Difficile
confrontarsi con i miti anche se fanno bene all’anima, come
cita la frase di lancio del film. Ci prova questo Ora
e per sempre affrontando la leggenda del Grande Torino, la
squadra che dominò il mondo calcistico sino alla fine degli
Anni Quaranta e che entrò nell’immaginario collettivo
anche, ma non solo - ci mancherebbe, grazie alla tragica fine che
lo colpì un pomeriggio di maggio del 1949, quando di ritorno
da Lisbona per un incontro amichevole, si schiantò sulla collina
di Superga insieme a tutti i suoi campioni ed a quattro giornalisti.
Non lo racconta direttamente ma attraverso la romanzata storia del
trombettiere che suonava la carica a Valentino Mazzola e company nei
momenti di maggior difficoltà.
Il film si muove su due piani narrativi diversi; uno ambientato nel
1949 attraverso la storia del trombettiere e di una fantomatica amichevole
da organizzare tra la squadra italiana e la nazionale inglese, in
un’Italia uscita sconfitta dal conflitto mondiale ma ancora
orgogliosa e visceralmente fascista; un secondo ambientato ai giorni
nostri dove il direttore di una casa editrice (Gioele Dix), per esaudire
l’ultimo desiderio del padre da poco deceduto, si mette alla
ricerca della famosa tromba. La ricerca sarà occasione per
ricostruire il rapporto con il figlio ed a recuperare la memoria e
l’affetto di un padre per troppo tempo assente.
La scelta di muoversi parallelamente sui due piani, rende troppo articolata
ed a tratti confusa la struttura del film. Troppa carne a fuoco crea
squilibrio tra i suoi elementi: alcuni vengono sin troppo sviscerati,
altri trattati in maniera veloce ed approssimativa. Sebbene condizionato
da limiti di budget, la ricostruzione storica della Torino fine anni
Quaranta, risulta finta e teatrale. Non bastano due macchine antiche
e vestiti d’epoca per ricreare una ambiente che nelle intenzioni
doveva essere più psicologica che non storica. La sottolineatura
dei passaggi d’epoca risulta troppo insistita e tediosa, la
recitazione del cast raramente convincente (la bravura di un attore
è nascondere la propria personalità dietro il personaggio;
Giorgio Albertazzi fa esattamente il contrario, giganteggiando e schiacciando
il proprio ruolo sotto un'interpretazione da Gran d’Attore),
i dialoghi sono a livello di una media fiction televisiva - quando
avremo personaggi che parlano come uomini veri invece di recitare
battute sempre troppo letterarie?- e la regia livellata sul classico
Verdecchi Touch di tanta fiction di successo, ma buona per il piccolo
schermo.
La leggenda del Grande Torino è rievocata in maniera meccanica
e forzata, attraverso frasi e ricordi fatte recitare a caso dagli
interpreti e depauperata di ogni patos sincero e sentito. Tutto risulta
posticcio, televisivo, asettico. Quando si ha in mano un materiale
di tale carica emotiva, è giusto un controllo rigoroso e sistematico
per non sbrodolare nel patetico, ma nello stesso tempo deve essere
lasciato levitare in modo che i ricordi e le emozioni si incastrino
alla perfezione nel tessuto narrativo dell’opera. Questo purtroppo
non succede mai per un film che è più che altro un tentativo
coraggioso ma mancato. [fabio melandri]