Con Una
notte al museo si dava risposta ad un quesito che molti
frequentatori di musei si ponevano (davvero?): Che cosa accade
a tutte le mostre quando si spengono le luci e i visitatori
vanno via?
Ora con Una notte al museo 2: la fuga,
si tenta di dare risposta ad un altro quesito che sorge in
chi si pone per un’ora e quaranta minuti davanti ad
un simil spettacolo: Perché? C’era necessariamente
il bisogno di resuscitare una storia che pareva morta e sepolta
con il primo episodio?
Così tenta di rispondere il regista artigiano Shawn
Levy: "Volevamo che tutto quello che c’era nel
primo film fosse non solo più grande ma anche migliore
in questo secondo episodio. Volevamo che il viaggio di Larry
(Ben Stiller) fosse ancora più avvincente, che lo aiutasse
a ritrovare la parte migliore di sé, quella di cui
ha all’improvviso perso coscienza in Una
notte al museo. Ben Stiller ed io eravamo d’accordo
che la favola non avrebbe avuto un seguito, a meno di avere
una nuova, grande storia.”
Alla luce di ciò la domanda nasce nuovamente spontanea:
Perché? Non basta ripetere stancamente la medesima
traccia narrativa del precedente – se per traccia narrativa
può intendersi un continuo e stanco inseguimento tra
buoni e cattivi – cambiando la semplice ambientazione,
dal Museo di Storia Naturale di New York al maestoso e mastodontico
Smithsonian Institution di Washington D.C., e moltiplicando
i personaggi protagonisti. Se bastasse questo, prepariamoci
ad un terzo capitolo magari ambientato al Louvre.
Una notte al museo 2 è
un inutile e stanco sfoggio di effetti speciali neanche troppo
speciali, condito da una lezioncina morale tirata fuori con
le unghie al bisogno tanto per dare una giustificazione pedagogica
ad un film che rasenta il grado zero di intelligenza, inventiva,
divertimento. E non serve neanche un discutibile e fastidioso
doppiaggio italiano – il centurione che parla romanaccio
e si appella a Totti, o riferimenti al Premier Italiano, complimenti
per l’originalità, che discende direttamente
da Napoleone – a salvare un’opera di cui avremmo
fatto molto piacevolmente a meno e che punta tutto sulla simpatia
del suo protagonista, un Ben Stiller votato alla causa per
pura pecunia e per, si spera, poter poi girare piccoli gioielli
come ilo recente Tropic Thunder,
che si aggira nei lunghi corridori del museo con aria stralunata,
guidando il suo piccolo esercito di personaggi a sicura sconfitta,
come il Generale Custer nella battaglia di Little Bighorn.
[fabio melandri]