Un
meraviglioso R. Lee Ermey giganteggia su quest’ennesimo
lavoro tratto dalla saga di The Texas
Chainsaw Massacre, meglio conosciuto in Italia come
Non aprite quella porta.
Lo sceriffo Hoyt, infatti, è un personaggio capace
di ridare all’horror quella fortissima nota ironico/sarcastica
che il genere, troppo rispettoso e involuto sul proprio, glorioso,
passato, aveva perso da qualche tempo.
Il punto su cui fa leva tutta la sceneggiatura è proprio
questa cifra scanzonata che, pur senza il fortissimo riferimento
socio-politico, ridà smalto ad un filone narrativo,
quello che si ispira alle macabre gesta del famigerato Ed
Gein, che altrimenti avrebbe avuto ben poco da dire.
Se Tobe Hooper, qui in veste di produttore, nel film del ’74,
aveva realizzato un antesignano di The
Blair Witch Project, ingannando emotivamente il pubblico
con la pretesa di mettere in scena una sorta di puro e verosimile
resoconto di fatti veramente accaduti, il film di Liebsman,
alla sua opera seconda dopo Darkness Falls, parte dalla semplice
pretesa di fare botteghino con un nome (Hooper), un titolo
(The Texas chainsaw massacre/Non aprite
quella porta) e un personaggio (Leatherface) già
ampiamente collaudati e spremuti.
Eppure, grazie ad uno script ispirato (redatto dalla coppia
Turner/Schow, con quest’ultimo già coinvolto
nella scrittura del terzo capitolo della saga) e ad un protagonista
che fa sua genialmente una parte che avrebbe potuto aver molto
poco da dire, il prequel di una delle serie più spremute
dal cinema horror si rivela un interessante e divertente tassello
in più, e non la solita occasione persa.
Certo, il film è schiavo delle sue premesse.
Le prime vittime della perversa famiglia texana non possono,
infatti, uscire indenni dal tragico incontro, per non rischiare
di rendere incoerente tutto quel che vi è stato dopo,
e che è stato raccontato nei capitoli precedenti
Così la traccia seguita è quella dell’originale,
tra giovani spensierati in cerca di evasione, sterpaglie desertiche
e case abbandonate. Vengono tralasciati i riferimenti più
impegnativi del film di Hooper: scompare la figura del disabile,
viene eliminato l’impatto iniziale con un’inquietante
sub-cultura deviata, contorta e autolesionista, il nucleo
familiare, pur nella sua orrida sgangheratezza, si fa più
delineabile, meno policentrico e sfumato.
Il tutto viene in qualche modo sopperito da una saturazione
di effetti al limite dello splatter, incardinati in un binomio
di regia/fotografia quasi classico per certi versi. La ricchezza
dell’immagine e il riuscito animo sarcastico sono nelle
corde di questo nuovo horror del nostro secolo, che ha in
gran parte abbandonato la sua funzione di critica e di denuncia,
probabilmente anche perché ne ha assolto in gran parte
gli scopi.
Il film però riesce a trovare una sua discreta specificità,
e a tirarsi fuori dal diffusissimo anonimato degli horror
recenti.
[pietro salvatori]
| sito
| trailer
originale |